Angelus

La domenica del Papa – Un grido di pace

ph Vatican media-Sir
23 Giu 2025

di Fabio Zavattaro

“L’umanità grida e invoca la pace”. È un lungo appello che papa Leone pronuncia all’angelus in questa domenica in cui si fa memoria del Corpo e Sangue di Cristo. Nella notte italiana, il presidente americano Donald Trump ha reso noto di aver portato a termine l’attacco a tre siti nucleari iraniani, scatenando la reazione iraniana su Israele che minaccia altri interventi: “notizie allarmanti dal Medio Oriente” afferma il Papa che “in questo scenario drammatico” non dimentica la “sofferenza quotidiana della popolazione, specialmente a Gaza e negli altri territori, dove l’urgenza di un adeguato sostegno umanitario si fa sempre più pressante”.

È dall’inizio del suo pontificato che chiede con forza la pace – una pace “disarmata e disarmante” come disse affacciandosi dalla loggia centrale della basilica vaticana – e questa non è un “momento di riposo tra una contesa e l’altra”, come disse ai rappresentanti del Corpo diplomatico accreditato in Vaticano. La pace, afferma Leone XIV all’angelus, è “un grido che chiede responsabilità e ragione, e non dev’essere soffocato dal fragore delle armi e da parole retoriche che incitano al conflitto”. C’è una responsabilità morale che è propria di ogni membro della comunità internazionale: “fermare la tragedia della guerra, prima che essa diventi una voragine irreparabile”. Non esistono conflitti “lontani quando la dignità umana è in gioco” e la guerra “non risolve i problemi” piuttosto “li amplifica” ferite profonde che i popoli impiegano generazioni per rimarginarle. E nessuna vittoria armata “potrà compensare il dolore delle madri, la paura dei bambini, il futuro rubato”.

Il Papa si appella alla diplomazia perché “faccia tacere le armi” e le Nazioni “traccino il loro futuro con opere di pace, non con la violenza e conflitti sanguinosi”. Appello nel giorno in cui si celebra il Corpus Domini, e la comunione con il corpo di Cristo per Benedetto XVI è “il farmaco dell’intelligenza e della volontà per ritrovare il gusto della verità e del bene comune”; per papa Francesco è “memoriale che guarisce la nostra memoria” e accende il desiderio di servire fino a creare “catene di solidarietà” con chi ha fame, non ha lavoro o è povero. Senza memoria, diceva Bergoglio, “diventiamo estranei a noi stessi, ‘passanti’ dell’esistenza; senza memoria ci sradichiamo dal terreno che ci nutre e ci lasciamo portare via come foglie dal vento”.

Ma torniamo al Vangelo di Luca, la moltiplicazione dei pani e dei pesci: papa Leone afferma che il miracolo “è un segno che ci ricorda che i dini di Dio, anche i più piccoli, crescono tanto più quanto più sono condivisi”; di più ci deve far riflettere sul fatto che “alla radice di ogni condivisione umana ce n’è una più grande, che la precede: quella di Dio nei nostri confronti”.

Interessante notare che Gesù prima di far portare alla gente il pane e i pesci – cinquemila presenti scrive Luca nel Vangelo – dona la sua parola; come dire, c’è un rapporto profondo tra parola e gesto che troviamo nella celebrazione dell’eucaristia, ma è anche il modo attraverso il quale Dio si manifesta nella storia della salvezza, come si legge nella Costituzione dogmatica del Concilio, la Dei verbum. Il dono del cibo e della parola.

Il vescovo di Roma torna sul concetto del dono ricordando che il Creatore “per salvarci ha chiesto a una sua creatura di essergli madre”, condividendo così “la nostra povertà, scegliendo di servirsi, per riscattarci, proprio del poco che noi potevamo offrirgli”.

È bello vedere che anche il piccolo dono che facciamo è apprezzato da chi lo riceve, afferma ancora il Papa, e quel dono “ci unisce ancor di più a quelli che amiamo”. Questo, dice Leone XIV, è quanto avviene nell’eucaristia: “Dio si unisce a noi accogliendo con gioia ciò che portiamo e ci invita ad unirci a Lui ricevendo e condividendo con altrettanta gioia il suo dono d’amore. In questo modo – afferma il vescovo di Roma citando le parole di Sant’Agostino – come “dai chicchi di grano, radunati insieme […] si forma un unico pane, così nella concordia della carità si forma un unico corpo di Cristo”.

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Diocesi

L’allocuzione dell’arcivescovo di Taranto, Ciro Miniero, per il Corpus Domini 2025

foto G. Leva
23 Giu 2025

di Angelo Diofano

Pacificazione e unità per il bene della città: sono questi i concetti su cui l’arcivescovo mons. Ciro Miniero si è soffermato nell’allocuzione pronunciata domenica sera in piazza della Vittoria, a conclusione della grande processione del Corpus Domini, partita come ogni anno dal Nuovo Tempio di Sant’ Antonio da Padova, in via Duca degli Abruzzi.
Tantissimi i fedeli, impossibilitati a prendere posto nella già affollatissima (e pur molto ampia) chiesa, che hanno atteso in strada l’uscita del Santissimo Sacramento. Una pioggia di fiori ha più accolto la comparsa dell’arcivescovo che reggeva l’ostensorio, in una scenografia resa particolarmente suggestiva dai colori del fantastico tramonto tarantino. Preceduto da un lungo corteo delle confraternite in abito di rito, degli scout, di rappresentanze delle tante realtà ecclesiali, dei Cavalieri del Santo Sepolcro e di quelli dell’Ordine di Malta, con le suore, i sacerdoti religiosi e diocesani e il Capitolo metropolitano, il Santissimo è stato portato per via Duca degli Abruzzi, via Di Palma, piazza Immacolata e via D’Aquino fino a piazza della Vittoria per il momento conclusivo. Al seguito, anche il gonfalone municipale con il neo consigliere Mattia Giorno.
Prima della benedizione eucaristica l’invito ai sacerdoti, riprendendo il discorso di papà Leone, alla fedeltà e alla credibilità nel ministero.

Di seguito, riportiamo il testo dell’allocuzione dell’arcivescovo Miniero:

 

Carissimi fratelli e sorelle, volge al termine la giornata gioiosa della Solennità del Corpo e Sangue del Signore. È una festa cara al Popolo di Dio. La processione di oggi polarizza nuovamente e visivamente la nostra esistenza sul Pane Eucaristico, Sacramento della presenza reale di Cristo Risorto che cammina con noi.
Incamminandoci devotamente con l’Ostia Santa, noi abbiamo voluto riconfermare la nostra adesione al disegno di Dio Padre, ovvero quello di “fare di Cristo il cuore del mondo”, come recita una bella antifona della Liturgia delle ore.
Nella messa di oggi abbiamo ascoltato il vangelo di Luca: «Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure».

Il Signore annuncia il Regno ad una moltitudine di persone attraversate dai bisogni più disparati. Si pone davanti alle folle come un riferimento certo. Non si pone soltanto come “annunciatore di cose belle e nuove”, come un “motivatore” o come un semplice “maestro”. Egli ci cura prendendoci in carico.
È sera, la gente è stanca e lui si preoccupa per la cena di chi lo ha seguito in questo luogo evidentemente distante dal centro abitato. I suoi discepoli vogliono disobbligarsi prima che sia troppo tardi e che la fame di tutti questi pellegrini ricada sulla responsabilità del Signore e dei suoi collaboratori. Gesù però non ci offre solo degli insegnamenti, egli pone una relazione vera con noi, una relazione che si compromette, si interessa e si impegna e vuole che i suoi discepoli facciano lo stesso. Non si sottrae all’aiuto e contestualmente non risolve la fame del suo uditorio da solo, ma coinvolge i suoi amici, li rende partecipi della sua stessa compassione, aprendo lo spazio della condivisione che non tiene conto dell’interesse personale, della propria fame ma della fame altrui.

foto G. Leva

Il miracolo della moltiplicazione dei pani è chiaramente figura dell’Eucarestia che è evento di comunione e di relazione con il Dio vero, che è scuola di condivisione e di comunità fra tutti noi.
Vorrei offrire a Gesù a nome di tutti quanti noi radunati, i nostri miseri cinque pani e due pesci, perché Egli li benedica e li spezzi per noi. L’estrema povertà dei nostri mezzi e delle nostre risorse nelle mani del Signore continuerà a saziare le moltitudini. Probabilmente dobbiamo raccogliere dal fondo della bisaccia queste piccole provviste, nascoste sotto altre cianfrusaglie delle nostre stanchezze, delle nostre ritrosie, delle nostre diffidenze e, perché no, dei nostri tanti peccati. Se troviamo il coraggio di porgere a Dio quel poco che abbiamo come Chiesa di Taranto, il Signore compirà il miracolo.
Come lo sguardo di Gesù sulle folle racconta di una presa di coscienza dei bisogni degli uomini e delle donne, anche il nostro sguardo, con realismo e fiducia attraverso questa Eucarestia deve rivolgersi al mondo le cui luci sono cupe. “La guerra mondiale a pezzi” si manifesta in tutta la sua forza distruttiva; i potenti del mondo appaiono insensibili al dolore dei popoli su cui ricadono le conseguenze nefaste del loro irresponsabile agire politico.
Noi cristiani abbiamo un modello a cui guardare e ispirarci: l’Agnello di Dio, pacifico e pur vittorioso sul male! 
Il mio invito è a rivolgere a Lui le nostre preghiere perché illumini le menti dei governanti e il mondo intero si incammini lungo i sentieri che portino alla pace.

Da pochi giorni Taranto ha un nuovo sindaco: a Piero Bitetti e al Consiglio comunale della città vanno i miei auguri per il compito di responsabilità che dovranno assumere. Con le dovute proporzioni, anche la nostra città va “pacificata”, in vista del bene comune da realizzare.
Una comunità divisa è debole, facile preda di forze poco o nulla interessate al suo progresso.

Quale idea di città vogliamo impegnarci a sostenere? Siamo disposti ad abbandonare le mere logiche clientelari per mettere in campo le migliori energie disponibili perché la città cresca?
Ricostruiamo insieme la sua identità; insieme ricostruiamo l’orgoglio di appartenere a una comunità; la collaborazione solidale tra tutti i settori della società è l’unica strada per “sortirne insieme”.

Nella storia della Chiesa, tutte le volte in cui si è riscoperta la devozione alla Santissima Eucarestia si è sempre stati interessati da un nuovo fervore, da una ritrovata passione. È un fervore che desidero invocare adesso per noi tutti, perché questo pane sempre fragrante e fresco rinnovi entusiasmo e ci ridoni forza partendo dai pochi pani e pesci del nostro impegno alla fede, alla comunione, alla carità.

Il Corpus Domini conclude anche l’anno pastorale. Ai parroci e a tutti i sacerdoti desidero rivolgere il mio ringraziamento per tutto il lavoro svolto, augurando loro per quanto è possibile un tempo di riposo.
Cari sacerdoti, l’Eucarestia è il tesoro posto da Dio nelle vostre mani;  possa il fuoco eucaristico ardere nelle vostre esistenze senza consumarvi,  ma rendendovi capaci di conferire luce al mondo che siamo chiamati ad amare senza condizioni.
Vorrei consegnarvi questo pensiero che papa Leone ha rivolto ai preti della diocesi di Roma: «Impegniamoci tutti ad essere sacerdoti credibili ed esemplari! Siamo consapevoli dei limiti della nostra natura e il Signore ci conosce in profondità; ma abbiamo ricevuto una grazia straordinaria, ci è stato affidato un tesoro prezioso di cui siamo ministri, servitori. E al servo è chiesta la fedeltà».
Nel raccoglierci ora invocando la luce profonda di questa benedizione Eucaristica, chiediamo alla Vergine santa qui presente ed adorante che la nostra chiesa di Taranto profumi sempre di questo pane, che ci ricorda dov’è la vera casa, una casa per tutti.

Sia lodato e ringraziato ogni momento …

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Medio Oriente sotto assedio

Testimonianza da Gerusalemme dove la speranza è sottile, ferita ma viva

Le parole della presidente dell’associazione ‘Oasi di pace’ che in questi giorni avrebbe dovuto portare in Italia 28 tra bambini e ragazzi di Betlemme. Lo scoppio della guerra tra Israele e Iran ha di fatto bloccato tutto. La cronaca di questi giorni

ph Ansa-Sir
20 Giu 2025

di Adriana Sigilli

Sono a Gerusalemme per la mia associazione Oasi di Pace perché 28 bambini e ragazzi di Betlemme sarebbero dovuti partire per una settimana di libertà, gioco e condivisione in Italia. Un viaggio, verso l’Italia, per lasciarsi alle spalle la chiusura del muro e due anni di guerra silenziosa. Ma il cielo ha cambiato i nostri piani. Un’altra guerra è esplosa: Israele e Iran, due potenze che si sfidano nel buio della notte. E noi, piccoli e grandi, ci siamo trovati sospesi in questo tempo irreale, dove anche i sogni devono aspettare. Io sono qui. In ascolto in preghiera.

Nel sofisticato sistema di protezione israeliano, il primo segnale arriva ai telefoni cellulari. È come una tromba d’allarme, come nei racconti dell’Esodo: “Fate presto, mettetevi in salvo”. Pochi minuti dopo, quando si individua la direzione dei missili, le sirene cominciano a ‘piangere’ nelle strade. È un suono che ti lacera dentro. Corriamo nei rifugi preposti. Le famiglie si chiudono nei ‘mamad’, le stanze blindate. Non tutte le case ne sono dotate, e allora ci si rifugia nell’androne del palazzo. Ci stringiamo gli uni agli altri e aspettiamo. Ma anche quando la minaccia passa, il cuore resta sveglio.

Gerusalemme, città vecchia, 17 giugno 2025 (foto A. Sigilli)

L’altra notte, mentre Gerusalemme sembrava essere risparmiata, il cielo sopra di noi si accendeva di bagliori. Sembrava una lotta tra angeli e demoni, una nuova battaglia nei cieli: “Allora vi sarà una grande angoscia, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora” (Mt 24,21). Gerusalemme non è il fronte, ma lo sfiora. Non è colpita direttamente, ma respira la paura.

Gerusalemme una città spezzata, come il velo del Tempio: a Ovest la parte ebraica, a Est quella palestinese. Una ferita visibile e invisibile, che nessun muro potrà mai guarire. Viviamo sospesi tra odio e ignoranza, tra convivenze forzate e silenzi assordanti. Ma anche in mezzo a tutto questo, Gerusalemme resta sacra.

Perché qui si prega, ancora. E forse è proprio questa preghiera che tiene in vita la speranza. “Pregate per la pace di Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano” (Salmo 122,6).

Nei giorni scorsi, la città vecchia è stata chiusa. Le sue porte antiche, testimoni di secoli di storia e lacrime, sono state sbarrate. Solo chi dimostra di abitarvi può entrare. Le strade, sia a Est che a Ovest, sono quasi deserte. I mercati un tempo vivi oggi sono muti. Il banco dei falafel alla Porta di Damasco, una volta affollato, serve in silenzio. Le pescherie non aprono. I giovani sono richiamati sotto le armi. E in mezzo a questo silenzio, si rivela una verità semplice e spoglia: la paura non conosce confini.

In questo tempo sospeso, non c’è distinzione tra arabo o israeliano, tra chi prega in una moschea, in una chiesa o in una sinagoga. Sotto le sirene, siamo tutti figli dello stesso timore.

Basta un errore umano, una distrazione, e ci chiediamo se sarà questa volta a toccare noi. “Il vento soffia dove vuole, e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va.” (Gv 3,8) Così è anche la paura: arriva come un soffio invisibile, e ci accomuna tutti. Non ci sono barriere culturali o religiose che tengano davanti alla fragilità della vita.

foto Sir

Eppure, Gerusalemme, con le sue mura, i suoi silenzi, la sua storia, resta un baluardo. Un simbolo eterno, inchiodato nella roccia, dove ogni pietra sembra sussurrare una preghiera. Le sue mura non solo dividono, ma proteggono. Ci ricordano che, anche nei secoli di dolore, Dio ha vegliato su questo luogo. E io, in mezzo a queste mura, sento che la speranza è ancora viva. Sottile, ferita, ma viva. Come brace sotto la cenere. È la sospensione del tempo. È la vita che trattiene il fiato. Come se tutta Gerusalemme fosse nel Getsemani. E qui non importa se sei palestinese o israeliano, cristiano. E intanto, penso a loro. Ai 28 bambini di Betlemme che avrebbero dovuto partire. A Lonate Pozzolo (Varese), e a Primaluna (Lecco), c’erano cuori pronti ad accoglierli. Ma il loro viaggio si è fermato prima ancora di cominciare. Sono nati dopo la costruzione del muro. Non hanno mai conosciuto la vera libertà. Vivono in una città chiusa, dove perfino un neonato ha bisogno di un permesso per uscire. Questi bambini, che non hanno mai visto il mare, sognano la pace. E io mi domando: chi proteggerà il loro diritto a sognare? In mezzo a tutto questo, io resto qui. Con il cuore in allerta come i telefoni. La mia presenza non è solo testimonianza. È un piccolissimo atto di fede nel Dio che vede, che ascolta, che piange con noi. E mentre la cronaca dei media racconta missili, strategie, geopolitica, io voglio raccontare questa mia storia. Quella di una donna che ha visto bambini rimandare il proprio volo verso una vacanza verso la libertà. Che ha ascoltato i silenzi di una città millenaria, e li ha trasformati in preghiera. Perché anche qui, nella notte più buia, la Parola rimane: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1).

 

(*) presidente ass. ‘Oasi di pace’

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Eventi in diocesi

Santa Maria La Nova, incontro con il poeta Franco Arminio

20 Giu 2025

La comunità parrocchiale di Santa Maria La Nova a Pulsano, attraverso il parroco don Davide Errico, ha invitato il noto poeta campano Franco Arminio per un incontro che si terrà in chiesa lunedì 23 giugno alle 20,30. L’illustre ospite si soffermerà sulla sua ultima raccolta di poesie dal titolo ‘Sacro minore’. Le sue poesie sono molto conosciute e raccontano i dettagli dei paesaggi, la bellezza della natura, l’intensità e la fragilità dell’amore, la profondità della vita. “La poesia di Franco Arminio è preghiera anche quando non fa esplicito riferimento al divino. Spesso pensiamo che la spiritualità coincida esclusivamente con simboli e significati strettamente religiosi – dice don Davide -. Per Arminio, invece, la misteriosa presenza dell’infinito è contenuta nell’apparente banalità del quotidiano. Sacro è allora l’infinitamente piccolo, il minuscolo, il dettaglio, perché sacra è la vita”.

 

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Tracce

Dejà vu e di male in peggio

Foto Reuters/Avvenire
20 Giu 2025

di Emanuele Carrieri

Dopo l’attacco di Hamas a Israele, nel fiume di dichiarazioni della politica israeliana, passò inosservato un annuncio di Netanyahu: “Cambieremo il volto del Medio Oriente”. Sembravano parole di circostanza, ma l’attualità mostra quanto Netanyahu credesse in quel passaggio. Dopo aver fatto radere al suolo la striscia di Gaza e avere strappato la spina nel fianco settentrionale di Hezbollah, Netanyahu ha deciso che serviva alzare l’asticella e risolvere, una volta e per tutte, la questione iraniana, provocando a cascata una escalation che rischia di avere dimensioni mondiali, con gli Stati Uniti pronti a entrare in guerra, così come la Germania. La guerra fra Israele e Iran è un tema ostico, particolarmente per gli effetti, imprevisti e imprevedibili. In un primo momento, sembrava che droni, razzi e raid avessero solo lo scopo di porre fine, in maniera radicale, al programma nucleare. La stampa americana sostiene che, da settimane, il governo israeliano era deluso dai pochissimi passi avanti nei colloqui fra Teheran e Washington, e che quindi fosse arrivato il tempo di accelerare. Il punto, però, è che un blitz come quello del 13 giugno è stato preparato da tempo. Quello di Tel Aviv sarebbe quindi un progetto di lungo corso. Ma con quali obiettivi? Inizialmente pareva che una volta distrutti i siti nucleari ci potesse essere uno stop, ma da giorni si nota una escalation. I missili di precisione stanno prendendo di mira i vertici di esercito e guardiani della rivoluzione, impianti energetici e tivù di Stato. E per bocca di Netanyahu, anche l’ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, è finito nel mirino: “Se lo ammazziamo, la guerra finirà”. Ancora più chiaro è stato Trump: “Sappiamo esattamente dove si nasconde il leader supremo. Non abbiamo, per ora, intenzione di eliminarlo. Ma la nostra pazienza si sta esaurendo”. L’idea che sta maturando è quella del “regime change”, il capovolgimento della teocrazia iraniana. È tutta una serie di dejà vu, di male in peggio: in Iraq, da Saddam Hussein all’Isis; in Afganistan, dai talebani fino ai talebani con ritorno e vendetta; in Egitto, da Morsi ad al-Sisi; in Siria, da Assad ad al-Jolani e altri ancora. Israele starebbe, quindi, accarezzando l’ipotesi di un collasso della repubblica islamica, di una fine della dittatura religiosa degli ayatollah. Però una caduta teleguidata a distanza potrebbe non essere realizzabile e il serio rischio di effetto domino che crei un altro focolaio di crisi eterna, è quanto mai reale. Il rischio coincidente di un cambio di regime imposto è quello di nutrire il nazionalismo iraniano, con l’esito far stringere il Paese ancora di più intorno ai pasdaran. Secondo gli israeliani, servirebbe una guerra aperta, fatta con “scarpe a terra”: perciò Israele è in pressing sugli Usa, ma Trump è riluttante, pure se ha fatto aperture sull’intervento diretto in guerra. Dopo essersi giocato più volte l’immagine di negoziatore, capace di far finire i conflitti in ventiquattro ore, c’è però una componente del mondo Maga che non vuole avventure militari all’estero. Israele propone agli Usa dei raid mirati, in particolare usando bombe anti-bunker che Israele non ha e che potrebbero demolire siti nucleari, come quello sotterraneo di Fordow. Ma anche in tal caso la campagna dovrebbe restare solo missilistica e aerea. C’è poi un precedente storico recente in cui è avvenuto un cambio di regime a colpi di aviazione e missili, senza “scarpe a terra”: la Libia. Malgrado tutte le proteste per le primavere arabe, Gheddafi era saldo al potere, e la sua fine iniziò quando americani e francesi ottennero una “no fly zone” su tutto il Paese. Da allora il rais ebbe i giorni contati. Ma il punto è che quell’intervento non era sostenuto da un progetto di realizzazione di uno “stato nuovo” e, di fatto, dal 2011 a oggi, la Libia è una nazione inesistente, divisa fra due governi, in cui non si riescono a tenere elezioni ed è in preda alla violenza di milizie e tribù. L’Iran è un Paese differente, ma non si può escludere che la caduta del regime faccia scivolare nel caos, che si formino milizie e che il Paese diventi territorio di anarchia armata. Per capire che una simile guerra non porta a cambi di regime indolori, necessita guardare intorno a Israele: Gaza è un ammasso di macerie, i capi di Hamas sono stati decimati, ma l’organizzazione rimane ancora in vita. Secondo l’esercito israeliano, Hamas conterebbe su quasi quaranta mila combattenti, migliaia di razzi e una rete di tunnel di almeno cinquecento chilometri. Una forza calata rispetto al 7 ottobre, ma ancora di tutto rispetto se si considera la potenza di fuoco che Israele ha scaricato su Gaza fra raid aerei, missilistici e truppe sul terreno. Stessa cosa vale per Hezbollah: se è vero che l’operazione con i cercapersone e i raid mirati hanno decimato i vertici dell’organizzazione, è anche vero che rimane un sostegno fondamentale della vita politica e sociale del Libano e che, anche in quel caso, non è avvenuto un cambio di regime. Forse a Israele non interessava spingere fino al collasso di Beirut, ma il capitale militare e diplomatico speso, più che cambiare in modo radicale il confine nord, ha narcotizzato la minaccia rimandando, forse, il problema. La guerra di Israele contro l’Iran rischia di avere diversi effetti collaterali che sono differenti a seconda delle risultanze. Se il regime dovesse reggere l’urto potrebbe non rinunciare all’idea del nucleare, anzi convincersi che la sopravvivenza passi proprio attraverso la detenzione della bomba atomica. Se invece dovesse configurarsi un crollo della repubblica islamica, si aprirebbe una fase di insicurezza oscura e profonda, con una instabilità a livello regionale crescente che avrebbe ricadute su diversi e numerosi ambiti: potrebbero esserci ripercussioni sullo stretto di Hormuz, punto di grandissima importanza strategica poiché passa quasi un quarto della produzione mondiale di petrolio. Pure questo un dejà vu. Anche in questo caso, di male in peggio.

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Sport

I successi della New Taranto e la crescita del futsal

20 Giu 2025

di Paolo Arrivo

Ci hanno fatto divertire. E pure sognare, gli atleti della New Taranto: come un raggio di sole dentro un’annata grigia e uggiosa, ovvero distinguendosi nel panorama sportivo ionico, alquanto desolante, la squadra di calcio a cinque maschile ha disputato un gran campionato (terzo posto in classica nel raggruppamento centromeridionale) arrestando la sua corsa ai playoff in semifinale. Il sogno della promozione nella massima categoria nazionale è sfumato. Ma il rammarico non può essere il sentimento dominante per chi ha interpretato il campionato di serie A2 Élite nel ruolo di terribile matricola. Un’esperienza positiva da far fruttare, cercando sempre di migliorare. La società pensa già al futuro in questo inizio di estate.

Il percorso della New Taranto

“Abbiamo finito da poco, ma non ci siamo fermati un attimo. Siamo già al lavoro per programmare al meglio la prossima stagione, perché sappiamo bene che ogni traguardo è solo il punto di partenza per quello successivo”. A parlare è il direttore generale Pietro Cazzato. Che ha tracciato un bilancio generale: “Quella appena conclusa è stata un’esperienza nuova per tutti noi. In tre anni abbiamo conquistato tre promozioni, ogni anno una sfida diversa, una categoria più alta”. Soprattutto questa realtà è stata capace di reggere il confronto con società che da anni sono protagoniste del futsal nazionale. A dimostrazione di come il lavoro sia stato ben pianificato, svolto con competenza, con passione e professionalità. Così la società del presidente Luca Malizia e del patron Salvatore Brittannico vuole dare continuità a un progetto importante. La cui credibilità è attestata dagli spettatori che hanno riempito gli spalti del PalaMazzola, cresciuti di settimana in settimana per assistere alle partite di campionato, sino all’ultima trasferta: un risultato del quale può andare fiera, la New Taranto.

Costruire il domani

Come ha dichiarato lo stesso Pietro Cazzato, l’obiettivo resta quello di vincere e di ben figurare. Ovvero replicare l’ottima annata, con l’auspicio che l’esito sia più fortunato – il fresco ricordo da cancellare si chiama PalaRigopiano di Pescara. Per questo ci si sta adoperando in una campagna acquisti importante. Senza dimenticare il settore giovanile, sul quale continuare a investire. Attività da portare avanti in un territorio che lamenta da anni un grosso deficit infrastrutturale. La richiesta agli amministratori locali: “Speriamo davvero che la nuova amministrazione comunale ci dia una mano concreta: abbiamo bisogno di spazi, palestre, palazzetti dove far allenare i tantissimi ragazzi che si stanno avvicinando al futsal”. Il calcio a cinque infatti attira un numero crescente di praticanti. Atleti che possono prendere a modello proprio la New Taranto, meritevole di vedersi assegnata la Coppa Disciplina quest’anno. Premio che racchiude lo stile e i valori dei quali si fa promotore questa società, partita a fari spenti, quasi da perfetta sconosciuta, in un’avventura entusiasmante.

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Associazionismo cattolico

Giornata Mondiale del Rifugiato, Acli: “Sia una Giornata di verità e umanità”

20 Giu 2025

In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato che si celebra oggi, venerdì 20 giugno –, le Acli rilanciano un appello forte e chiaro per la tutela dei diritti, l’accoglienza e la promozione della dignità di milioni di persone costrette a fuggire da guerre, persecuzioni e disastri umanitari.
«Parliamo di oltre 120 milioni di persone nel mondo – dichiara Gianluca Mastrovito, delegato nazionale per l’immigrazione e l’accoglienza delle Acli – ma dietro i numeri ci sono storie, nomi, sogni spezzati, vite che hanno perso tutto tranne la speranza. Ed è nostro dovere accoglierle e costruire insieme percorsi di umanità condivisa».
Le Acli lanciano anche un appello al Governo italiano: non rinnovare il Memorandum d’intesa con la Libia, siglato nel 2017 e ritenuto da numerose organizzazioni internazionali responsabile di gravi violazioni dei diritti umani.
«Dal 2017, oltre 85.000 persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia – afferma Mastrovito –  molte di loro sono state detenute, torturate, sfruttate. È inaccettabile continuare a collaborare con chi viola ogni principio di legalità e umanità».
L’accoglienza non è emergenza, ma scelta politica e culturale. Significa costruire percorsi di integrazione, inclusione, ascolto e valorizzazione delle persone.
«Con il giusto sostegno, i rifugiati possono diventare protagonisti dell’innovazione sociale e dello sviluppo economico. In un’Italia colpita dall’inverno demografico – conclude Mastrovito -, questa è una verità che non possiamo più ignorare».

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Ecclesia

Leone XIV ha celebrato i 43 anni di sacerdozio

Abbiamo intervistato mons. Marín de San Martín che ha evidenziato spiritualità agostiniana, stile sinodale, ascolto dei segni dei tempi e passione missionaria del nuovo pontefice: “La sinodalità è il suo stile quotidiano di Chiesa”

foto Agostiniani
20 Giu 2025

di Riccardo Benotti

“È un uomo di Dio, di profonda preghiera, che vive il sacerdozio come servizio alla Chiesa e al popolo”: mons. Luis Marín de San Martín, sottosegretario del Sinodo dei vescovi, ricorda così i 43 anni di ordinazione sacerdotale di papa Leone XIV, che si sono celebrati ieri, 19 giugno. Agostiniano come lui, ne ha condiviso la spiritualità e il cammino ecclesiale. Ne racconta la visione di Chiesa, l’anima missionaria, la passione per la sinodalità e la fiducia in una fede vissuta con semplicità, ascolto e carità.

foto Siciliani Gennari-Sir

Eccellenza, che sacerdote ha conosciuto nel corso di questi anni?
È un uomo di Dio. Vive l’esperienza di Cristo risorto con forza e autenticità. È un uomo di profonda preghiera, che celebra l’eucaristia con intensità, al centro della sua vita. Il suo sacerdozio è indissolubilmente legato a quello di Cristo, vissuto come servizio, disponibilità e amore per la Chiesa. Vive la dimensione agostiniana del “Cristo totale”, cioè capo e membra in unità inscindibile: non c’è Cristo senza Chiesa, né Chiesa senza Cristo.

Quanto è presente l’impronta agostiniana nel suo modo di essere prete?
Papa Leone si è presentato sin dall’inizio come “figlio di Sant’Agostino, agostiniano”. È dal carisma agostiniano che viene il suo servizio sacerdotale. Soprattutto per quanto riguarda la comunione con Cristo e, in Cristo, con tutti i fratelli e le sorelle.

La sua è una spiritualità incarnata, che si traduce in amore concreto per la comunità e in un servizio vissuto con umiltà e dedizione.

Nella vita agostiniana, la comunità è centrale ma intesa in un senso molto forte: quello di avere una sola anima e un solo cuore protesi verso Dio. Da qui il discernimento si fa insieme, la corresponsabilità è vissuta, la fraternità è concreta. Tutto questo si riflette nel suo stile pastorale, profondamente ecclesiale e comunitario.

Chi è mons. Luis Marín de San Martín

Nato a Madrid nel 1961, è sacerdote agostiniano dal 1988. Dopo un dottorato in teologia alla Pontificia Comillas e incarichi di formazione e governo nell’Ordine, nel 2008 viene chiamato a Roma da Robert Prevost, per collaborare nella Curia generalizia. Dal 2021 è sottosegretario del Sinodo dei Vescovi e vescovo titolare di Suliana. Esperto di spiritualità agostiniana e figura di collegamento tra tradizione e sinodalità, è autore di numerose pubblicazioni.

È un Papa che colpisce per la sua semplicità. Da dove nasce questa sensibilità?
È un uomo semplice ma non ingenuo, gentile ma non insicuro, paziente ma non debole. È il suo carattere, ma coltivato nella preghiera e nell’attività pastorale. La sua grande sensibilità nasce dall’esperienza di Cristo Buon Pastore. Ha una forte dimensione sociale, che lo avvicina a chi soffre, a chi è ai margini. È un uomo che ama la giustizia, che cammina con il popolo, che ascolta. Il suo sacerdozio è popolare nel senso più profondo: stare con, servire, condividere, accompagnare.

In questi primi passi da Pontefice, ha parlato spesso di sinodalità. Perché è un tema così centrale per lui?
Perché la sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa e anche fa parte del modo di essere dell’Ordine agostiniano.
Camminare insieme, praticando l’ascolto reciproco e la corresponsabilità, è per lui una realtà quotidiana, non uno slogan. Lo ha vissuto da religioso e da vescovo, lo vive oggi da Papa. È convinto che una Chiesa sinodale sia più fedele al Vangelo.

La sinodalità è diventata anche uno stile di governo?
Sì, lo è sempre stata. Come priore generale lavorava in équipe e rispettava il principio di sussidiarietà. A Chiclayo esistevano strutture di corresponsabilità e coinvolgeva tutti nella redazione del programma pastorale. Come prefetto ha partecipato attivamente al processo sinodale, con interventi mirati e concreti, anche in due dei gruppi di lavoro sinodale. Anche oggi non lavora in maniera individualistica e solitaria, ma ascolta, non accentra e, dopo aver riflettuto, decide con responsabilità e risoluzione.

Uno degli aspetti centrali del suo ministero sembra essere l’attenzione ai “segni dei tempi”.
Il Verbo si fa carne, il Vangelo si incarna nella storia. È necessario conoscere il nostro tempo per poter rispondere alle sue sfide, per poter evangelizzare.
Papa Leone non è un uomo astratto né teorico, ma è immerso nel mondo. Ha parlato di intelligenza artificiale, di pace, di guerra, di vita concreta delle persone. Sa leggere la realtà per servire meglio, per portare il Vangelo là dove ancora non è arrivato.

 

foto Afp-Sir


Quanto ha inciso il suo essere missionario?

Profondamente. Ha un’anima missionaria e sente molto forte la chiamata ad evangelizzare. Pochi anni dopo l’ordinazione sacerdotale è andato in Perù, alla zona di missione. Ha vissuto in realtà molto diverse: Chicago, Chiclayo, Roma. Quando è stato superiore generale, ha visitato le comunità agostiniane sparse in tutto il mondo. Ha un cuore grande e una mente aperta, conosce le lingue, le culture, le persone. È un uomo che costruisce ponti, che unisce.

Che tipo di pastore è?
Sereno, riflessivo, instancabile. Lavora tanto, con metodo e precisione. È teologo, canonista, matematico. Ma soprattutto è uomo di ascolto.
Papa Leone non è un uomo astratto né teorico, ma è immerso nel mondo. È una guida che accompagna, non che domina. Ha una grande capacità di leadership.

E rispetto al ruolo dei laici?
Si parte dal battesimo, non da un’ottica clericale. Tutti i battezzati sono corresponsabili nella missione della Chiesa. Non è un “dono” o una “concessione” che si fa ai laici, è la loro vocazione. Possiamo parlare di corresponsabilità differenziata, mai di assemblearismo. Ognuno partecipa con ciò che è proprio, senza confondere ruoli, ma valorizzando tutti. È la sinodalità vissuta.

Stemma Papa Leone XIV

Ordinazione e formazione di papa Leone XIV

Dopo aver emesso i voti solenni il 29 agosto 1981, Robert Prevost riceve la formazione teologica alla Catholic Theological Union di Chicago e viene poi inviato a Roma per approfondire il Diritto canonico alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum). È ordinato sacerdote il 19 giugno 1982 nella Cappella di Santa Monica, a Roma, da mons. Jean Jadot. Nel 1984 ottiene la licenza e l’anno successivo, mentre prepara la tesi di dottorato, parte per la missione agostiniana di Chulucanas, in Perù. Nel 1987 discute la tesi su “Il ruolo del priore locale dell’Ordine di Sant’Agostino” e viene nominato direttore delle vocazioni e delle missioni della Provincia “Madre del Buon Consiglio” in Illinois.

Si diceva che servisse un Papa “di sintesi”. Crede che Leone XIV lo sia?
Papa Leone non alimenta polarizzazioni. La Chiesa non è un’arena di confronto ma una comunione dove tutti siamo fratelli e sorelle, non nemici. E tutti in collaborazione cerchiamo il bene della Chiesa. È un pontefice, nel senso più profondo: costruttore di ponti. Cerca l’unità, la comunione, ma valorizza le differenze. La chiave? La carità. Se c’è carità, la diversità ci arricchisce. Se manca, ci divide.

Quale immagine di Chiesa può sintetizzare la visione del Papa?
Quella di Chiesa come famiglia di Dio, perché nella Chiesa, come in una famiglia, ognuno ha un ruolo, ma tutti partecipano con amore. Il padre, la madre, i figli: ognuno è diverso, ma nessuno è escluso. È l’immagine di una Chiesa viva, inclusiva, affettuosa, corresponsabile. Un corpo in cui ogni membro è importante.

In questo tempo segnato dalla guerra, Leone XIV porta un messaggio di pace.
Un cristiano vive di speranza. La pace non è un’utopia: è Cristo risorto. La fede del Papa è profonda, ed è da lì che nasce la speranza. La guerra, la morte, non hanno l’ultima parola. L’ultima parola è la risurrezione. Ed è questa la pace che dobbiamo testimoniare, a partire dalla nostra vita quotidiana.

In definitiva, che Papa sarà?
Un credente, uomo di fede, che ama profondamente la Chiesa e conosce molto bene il nostro mondo. Che crede nella carità come chiave per vivere insieme. Tranquillo e riflessivo, dinamico e coraggioso. Leone XIV porterà avanti con serenità e profondità una storia di servizio e di comunione. Sarà un grande Papa, ne sono sicuro.

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Sport

La Lega Navale di Taranto ospita la prima giornata del campionato nazionale di serie B di canoa polo

20 Giu 2025

Un altro grande evento vedrà come protagonista la Lega navale italiana-sezione di Taranto che sabato 21 e domenica 22 giugno ospiterà, nello specchio d’acqua antistante la sua sede, al lungomare, la prima giornata d’andata del campionato nazionale di serie B di canoa polo organizzato dalla Federazione Italiana Canoa e Kayak. Vi parteciperanno sette squadre (composte da cinque elementi titolari) provenienti da diverse regioni, compresi i padroni di casa della sezione tarantina della Lega Navale guidati dal coach Gianni Romanazzi. La formula prevede un girone all’italiana con le gare che saranno disputate nella giornata di sabato 21 giugno (inizio alle ore 12) e domenica 22 giugno (inizio alle ore 8.30). Oltre alla squadra tarantina scenderanno in acqua le seguenti compagini: Canottieri Ichnusa di Cagliari, Canoa Club Cagliari , Jonica Canoa Polo Catania, Canoa Polo Ortigia, Canottieri Jonica Catania e Canoa Polo Club Siracusa. Grande l’entusiasmo dell’allenatore jonico Romanazzi in vista dell’esordio in campionato che così dichiara: “Anche quest’anno la Federazione Italiana Canoa ha scelto Taranto, città del mare e dello sport a livello europeo e dei Giochi del Mediterraneo, per svolgere questa importante tappa del campionato di canoa polo. Vi aspettiamo alla Lega Navale sabato e domenica per sostenere la nostra squadra che è bene ricordarlo rappresenta Taranto…Forza Taranto!” .

La seconda giornata del campionato si disputerà a Bacoli-Napoli il 12 e 13 luglio.

 

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Diocesi

Tante mani, un solo cuore: il ‘preseminario 2025’

19 Giu 2025

di Francesco Mànisi

Nel cuore della nostra diocesi c’è un luogo speciale dove i giovani possono crescere in un clima di ascolto, preghiera e fraternità. Il seminario minore di Taranto è molto più di una scuola o di una comunità educativa: è una casa in cui ciascun ragazzo è accompagnato nel cammino della propria crescita umana e spirituale. In un tempo segnato da incertezze e da ricerca di senso, il seminario si propone come spazio in cui scoprire il disegno d’amore che Dio ha su ciascuno. Con una proposta educativa che mette al centro la persona nella sua totalità, il seminario minore aiuta i ragazzi a diventare uomini autentici, capaci di scegliere con libertà e fede.

Se sei un ragazzo dalla seconda media in su e vuoi vivere un’esperienza diversa dal solito, il ‘preseminario’ è l’occasione che fa per te!

Dal 27 al 29 giugno il seminario minore di Taranto apre le sue porte per una tre giorni speciale tra gioco, preghiera, fraternità e riflessione. Il tema che accompagnerà quest’anno è: ‘Tante mani, un solo cuore’. Un invito a riscoprire la bellezza della collaborazione, della fraternità, del camminare insieme, pur nella diversità di ognuno. In seminario, infatti, ogni giovane è chiamato a mettersi in gioco con i suoi talenti, contribuendo alla costruzione di un’unica comunità dal cuore grande. Ogni giorno dell’esperienza sarà dedicato alla scoperta, in modo semplice e coinvolgente, delle tre dimensioni fondamentali della formazione seminaristica: umano-relazionale, imparare a stare con gli altri, conoscersi meglio creare legami autentici; spirituale, scoprire il valore della preghiera, dell’ascolto della Parola, della relazione con Gesù; culturale, coltivare il pensiero, la curiosità, la voglia di crescere interiormente. Il tutto sarà proposto attraverso laboratori ludici, attività dinamiche e coinvolgenti. Oltre ai momenti di preghiera, testimonianza e riflessione, ci sarà tanto spazio per il divertimento: il consueto mini torneo di calcetto per sfidarsi nel segno del fair play, una caccia al tesoro finale, giochi d’acqua e tanto altro.

Cosa portare? Per vivere al meglio l’esperienza, ogni partecipante dovrà portare con sé: lenzuola, asciugamani effetti personali per l’igiene, cambi di abiti, occorrente per il calcio (scarpette, pantaloncini, maglia), costume da bagno per i giochi d’acqua.

Come iscriversi? Per iscriversi è necessario segnalare la propria adesione al parroco che informerà gli educatori del seminario (don Francesco Maranò 340 9705114, don Francesco Manisi 328 7724556).

L’esperienza è rivolta a ragazzi dai 12 ai 17 anni provenienti dalle comunità parrocchiali, dal gruppo dei ministranti, dalle associazioni e dai movimenti. Durante il tempo estivo le famiglie dei ragazzi interessati sono ben accolte, insieme ai parroci, nel visitare il seminario e conoscere questa realtà. Chi è predisposto a vivere questa esperienza di fraternità nel seminario minore può iniziare il cammino già dal prossimo settembre!

Vi aspettiamo con gioia! Non lasciatevi scappare questa bella opportunità!

 

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Giubileo2025

L’omelia di mons. Ciro Miniero per il pellegrinaggio giubilare diocesano, a Roma

19 Giu 2025

La nostra diocesi, mercoledì 18 giugno, è stata a Roma per il pellegrinaggio giubilare che ha coinvolto tutte le realtà ecclesiali tarantine.
Dopo essere passati dalla Porta santa, l’arcivescovo Ciro Miniero ha celebrato la santa messa nella basilica papale di San Paolo fuori le mura; di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’omelia:

Carissimi fratelli e sorelle della Chiesa tarantina,
stiamo vivendo un’ora di speciale grazia quest’oggi: abbiamo attraversato insieme la Porta santa di questa Basilica e stiamo celebrando l’Eucaristia sull’altare edificato sul sepolcro dell’apostolo Paolo. Siamo venuti da Taranto come pellegrini di speranza perché sentiamo in noi il desiderio di camminare insieme, attuando quello che l’Apostolo stesso, ricorda alle comunità cristiane nei suoi scritti.
Esattamente un mese fa, papa Leone nella sua prima omelia, chiedeva alla Chiesa di crescere nell’amore e nell’unità, indicando queste due dimensioni come cruciali per la missione affidata da Gesù a Pietro.
E noi, mentre ringraziamo il Signore per averci donato papa Leone XIV, questa mattina solennemente facciamo nostro il suo appello e ci impegniamo a camminare sempre più nell’amore e nell’unità. Siamo convinti che, citando le parole del Santo Padre, “con il Battesimo, tutti noi siamo chiamati a costruire l’edificio di Dio nella comunione fraterna, nell’armonia dello Spirito, nella convivenza delle diversità”.

La pagina del Vangelo di Luca che abbiamo appena ascoltato ci ha portati nella sinagoga di Nazareth: è qui che Gesù, con il suo discorso, dà inizio al suo ministero pubblico e si presenta come Colui che è venuto a compiere le profezie di Isaia. Egli è il Messia mandato da Dio e consacrato dallo Spirito per parlare a nome del Signore, portando la sua misericordia, la libertà e l’aiuto ai bisognosi, ai poveri, agli oppressi.

Carissimi anche noi ci troviamo oggi dinanzi a Gesù che proclama la Parola d’amore di Dio e ci chiede di tenere aperti i nostri cuori per accogliere il suo invito. Gesù è il Messia, il Figlio di Dio inviato nella storia degli uomini, per sostenere e guidare l’umanità nella ricerca e nel cammino del bene.
La frase centrale del Vangelo è nella dichiarazione di Gesù: “Oggi si è adempiuta questa scrittura”. C’è un “oggi” in cui si concentra la realizzazione della promessa di Dio di liberazione e di redenzione, promessa che non consiste in eventi casuali, ma nella realtà di una persona “scandalosamente” umana. Gli occhi di tutti nella sinagoga sono puntati sul profeta di Galilea per vedervi l’autenticità della Parola di Dio. Parola e immagine di Dio convergono nella sua persona, che non appare per nulla fuori dal comune: “Non è il figlio di Giuseppe?”, si chiedono i suoi concittadini.

Miei cari, il brano del Vangelo ascoltato, ci offre le coordinate fondamentali per comprendere la celebrazione dell’Eucaristia, fonte e culmine della nostra vita ecclesiale e personale. Essa coinvolge i nostri sensi fondamentali: l’udito e la vista e ci sostiene nel cammino di unità e di testimonianza. “Ascoltare” la Parola e “vedere” il segno sacramentale esprimono l’unica azione di Gesù che continua a rendersi presente quotidianamente nella sua Chiesa. In ogni celebrazione eucaristica mentre ascoltiamo la Parola e vediamo il segno del Pane spezzato, ascoltiamo anche la promessa di Dio sulla nostra vita, realizzata nei gesti d’amore che possiamo compiere nel quotidiano.
Ciascuno di noi può ricavare un importante insegnamento dal brano del Vangelo di oggi: la nostra vita feriale chiede di farsi ascolto dell’unico Signore perché porti i frutti promessi che sono amore, unità e pace.
Restiamo dunque aperti alla potenza della sua Parola tenendo sempre lo sguardo fisso su di Lui per non rischiare, come i suoi contemporanei e conterranei, di camminare su altre vie. Viviamo la nostra fede in Dio come potenza d’amore e vincolo di unità a servizio del bene e per il bene di tutti. Modifichiamo quei nostri modi di vivere che sono lontani dalla logica di Dio e cresciamo in quella fraternità che Gesù Cristo ha inaugurato facendosi uomo.

In questa Basilica rinnoviamo il legame di appartenenza alla Chiesa di Gesù Cristo con la professione della fede apostolica. Da questo altare eleviamo la nostra riconoscenza al Signore per il bene ricevuto e per quanto Egli particolarmente ci ha fatto vivere nelle esperienze personali, familiari e parrocchiali.

Per tutto questo esprimiamo la nostra lode e la nostra riconoscenza a Lui e impegniamoci col Suo aiuto e con tutte le nostre forze a camminare con tutti gli uomini di buona volontà, per edificare un mondo secondo il cuore di Dio, per confessare apertamente che la fede, la speranza e la carità sono il fondamento di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione. Il nostro sguardo resti sempre fisso su Gesù perché abbia senso e dia frutto ogni sacrificio fatto per amore.
Portiamo in questa celebrazione anche la riconoscenza e la lode al Signore dei nostri fratelli e sorelle che non sono potuti venire qui quest’oggi, particolarmente degli ammalati e degli anziani.

Ci aiutino l’intercessione degli apostoli Pietro e Paolo associati col martirio nella testimonianza a Cristo e confidiamo nell’aiuto materno della Vergine santissima per crescere nella fraternità.

 

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Crimini contro l'umanità

Tacey (Save the Children): “I bambini della Striscia di Gaza stanno vivendo un film dell’orrore”

ph Save the Children International
19 Giu 2025

di Giovanna Pasqualin Traversa

“Quello che sta accadendo a Gaza è un film dell’orrore, e a pagarne il prezzo più alto sono i bambini”: non usa giri di parole l’australiana Georgia Tacey (nella foto in basso), Gaza Project Director per Save the Children. L’abbiamo raggiunta in collegamento su Zoom da Deir el-Balah, al centro della Striscia.

foto: Save the Children International

Georgia, dopo 600 giorni di guerra e ostacoli all’entrata di cibo, acqua, combustibile, medicine, com’è la situazione dei bambini a Gaza?
È una situazione disperata. Sono stata fuori circa tre settimane; tornata due settimane fa ho riscontrato un impressionante deterioramento fisico e psicologico negli stessi membri del nostro staff e nei bambini inseriti nei nostri programmi.  Queste settimane senza accesso a cibo nutriente o ad alcun cibo sono state incredibilmente difficili. Molti bambini e molte madri sono a rischio malnutrizione.

Di quali bambini, in particolare, vi state occupando?
Stiamo lavorando con bambini che, rimasti senza genitori dopo la loro uccisione, sono stati affidati ad altre famiglie che hanno già molti bambini; se anche questi genitori affidatari vengono uccisi, rimangono famiglie di 10-12 bambini senza nessun adulto in grado di prendersi cura di loro.
Questi bambini stanno affrontando una perdita e un dolore incredibili e non hanno più alcuna sicurezza fisica o psicologica. Vivono una situazione davvero pericolosa e disperata.

foto: Save the Children International

Pensa che ci sia una sorta di carestia indotta? La fame usata come arma di guerra?
Assolutamente sì. È proprio così. Non è un problema di mancanza di cibo. Abbiamo migliaia di camion carichi di cibo e forniture mediche bloccati alle frontiere perché le autorità israeliane non permettono alle Ong e all’Onu di farli entrare. È una decisione politica: cibo e aiuti vengono usati come armi e i bambini ne pagano un prezzo altissimo.

Perché le autorità non vi consentono di distribuire cibo, aiuti e medicinali?  
Questa è una bella domanda. Da più di tre mesi le autorità israeliane, con la falsa accusa che Hamas rubi gli aiuti destinati alla popolazione, hanno bloccato tutti gli aiuti in arrivo impedendo alle Ong di farli entrare. Hanno consentito solo l’ingresso di un piccolo numero di camion Onu ma si tratta di una goccia nell’oceano. È terribile.

Sembra che Adam, il ragazzo undicenne unico sopravvissuto alla strage della sua famiglia mentre la mamma, pediatra, era al lavoro, a breve potrà lasciare la Striscia per venire in Italia ed essere curato in un nostro ospedale. Quanti sono i bambini gazawi bisognosi di cure che non possono ricevere a Gaza?
Questa di Adam è una splendida notizia! Sui bambini non so dare un numero preciso perché non abbiamo un ospedale, ma i nostri colleghi chirurghi al Nasser Hospital ci raccontano che almeno il 50% dei pazienti che operano sono bambini dai quali estraggono schegge e proiettili curando gravissime ferite e tentando di riparare gravi fratture. Il tutto senza anestesia perché mancano i farmaci… Oggi a Gaza c’è il più alto numero di bambini amputati nel mondo.
Inoltre molti bambini muoiono di malattie prevenibili ma che qui, non potendo essere curate, diventano catastrofiche. È incredibile e imperdonabile.

foto: Save the Children International

Un chirurgo americano ha raccontato di fronte al Consiglio di sicurezza Onu di bambini sopravvissuti alle proprie famiglie, che quando si rendono conto di essere rimasti soli vorrebbero anch’essi morire.
Sì, è molto comune. Quando i bambini vengono ai nostri programmi d’educazione, nei nostri spazi dedicati dove abbiamo operatori sociali qualificati per aiutarli ad elaborare il dolore, o almeno per offrire loro un luogo sicuro, molti di loro parlano di suicidio. Troppi bambini hanno visto i loro amici morire davanti ai loro occhi. Hanno visto braccia e gambe volare via, hanno visto i propri genitori morire intrappolati sotto le macerie. Hanno assistito a scene spaventose che nessun bambino dovrebbe mai vedere. Per questo non ci sorprendiamo se molti di loro parlano di suicidio e del desiderio di raggiungere le loro famiglie in paradiso.

A Gaza ci sono molte donne giovani: come fanno a partorire e a prendersi cura di un neonato in un contesto dove i pochi ospedali rimasti sono al collasso?
Ogni giorno partoriscono nella Striscia circa un centinaio di donne e lo fanno dove possono: in tende o tra le macerie di edifici esplosi, senza precauzioni igieniche e senza medici e ostetriche. Alcune di loro muoiono per complicazioni che in ospedale sarebbero risolvibili. I neonati che sopravvivono vengono posti in scatole di cartone per proteggerli da formiche e altri insetti. Alla totale assenza di igiene si aggiunge il fatto che molte puerpere sono così malnutrite da non avere latte per alimentare i propri neonati.

Intanto la risoluzione Onu per il cessate il fuoco è stata bocciata per il veto Usa…
Sì, è molto frustrante. Non sorprendente ma molto frustrante.

foto: Save the Children International

Che cosa chiede Save the Children?
Chiediamo un immediato e incondizionato cessate il fuoco e la riapertura delle frontiere per consentire l’accesso alle Ong e ai nostri camion carichi di cibo e forniture mediche. Tutto deve essere poter entrare. E su larga scala, non con il contagocce come avviene ora. Prima del blocco entravano 500/600 camion al giorno e non erano sufficienti a soddisfare i bisogni di due milioni di persone. E’ davvero frustrante saperli bloccati dalle autorità israeliane.

Dopo la sospensione di un giorno e mezzo, questa sera (ieri sera per chi legge, ndr) la Gaza Humanitarian Foundation ha ripreso le operazioni in un nuovo sito.
Sì, abbiamo saputo – ma non sono in grado di verificarlo – che lo faranno in due luoghi e solo per un’ora. In ogni caso la Ghf fornisce solo cibo, non altri supporti vitali, e dispone solamente di quattro centri di distribuzione invece dei 400 nei quali operiamo noi, così la gente è costretta a camminare ore e ore sotto il sole su strade pericolose in zone di combattimento per raggiungerli. Persone affamate e disperate contro le quali i militari hanno anche aperto il fuoco uccidendone più di cento. Noi sappiamo come operare; abbiamo strumenti, esperienza, catene di distribuzione. Abbiamo sempre consegnato aiuti in sicurezza, distribuendo cibo e acqua all’interno di un rifugio e sempre dando priorità alle persone più vulnerabili, così le persone devono camminare non più di 20 metri per tornare al loro accampamento con quello che hanno ricevuto.

foto: Save the Children International

Per noi, dall’Europa, è difficile immaginare la tragedia che si sta consumando a Gaza.
È crudele, disumano. È come un film dell’orrore che nessuno immaginava potesse accadere. Io sono australiana, e i minori dei nostri programmi mi chiedono spesso: “Quando arriveranno gli adulti? Quando porranno fine a questa follia?”.
Non capiscono perché la comunità internazionale non sia ancora intervenuta. È davvero imbarazzante non avere risposte per questi bambini che si rendono conto che i diritti umani non vengono loro garantiti come ai coetanei del resto del mondo.

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