“Si fermi subito la barbarie della guerra” e si “raggiunga una soluzione pacifica del conflitto”: è un nuovo forte appello per la pace che papa Leone pronuncia da Castelgandolfo; negli occhi le immagini dei “continui attacchi militari contro la popolazione civile e i luoghi di culto a Gaza”, non ultimo il proiettile sparato da un carro armato contro la chiesa cattolica della Sacra Famiglia che ha causato la morte di tre cristiani – il Papa cita i loro nomi all’angelus – e il ferimento di altri compreso il parroco Gabriel Romanelli. Venerdì il cardinale Pierbattista Pizzaballa e il patriarca greco-ortodosso, Teofilo III, hanno fatto visita alla comunità portando anche 500 tonnellate di aiuti umanitari da destinare a tutta la popolazione.
Leone XIV esprime vicinanza ai familiari delle vittime e a tutti i parrocchiani e agli “amati cristiani mediorientali” con i quali condivide la “vostra sensazione di poter fare poco davanti a questa situazione così drammatica”.
Infine, appello alla comunità internazionale “a osservare il diritto umanitario e a rispettare l’obbligo di tutela dei civili, nonché il divieto di punizione collettiva, di uso indiscriminato della forza e di spostamento forzato della popolazione”.
È da quando si è affacciato la prima volta dalla loggia centrale della basilica vaticana, l’8 maggio scorso, che papa Leone chiede la pace tra israeliani e palestinesi, tra Russia e Ucraina, ma anche in tutte le parti del mondo, “pace disarmata e disarmante” disse allora.
Angelus nella domenica in cui finalmente può celebrare in quella chiesa di Albano di cui, da cardinale, aveva il titolo: “dovevo arrivare il 12 maggio – dice nell’omelia che pronuncia nella cattedrale di San Pancrazio – però lo Spirito Santo ha fatto diversamente”.
Prendendo spunto dalla prima lettura e dal Vangelo, il vescovo di Roma si sofferma sui concetti di ospitalità, servizio e ascolto. Nel brano della Genesi troviamo il patriarca Abramo che accoglie i “tre uomini” che vengono alla sua tenda “nell’ora più calda del giorno”; ma riconosce nei visitatori la presenza di Dio e ascolta “in piedi presso di loro sotto l’albero” la notizia che Sara, nonostante l’età avanzata, avrà un figlio.
Luca, nel suo Vangelo, ci propone l’accoglienza che Gesù riceve a Betania nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, e sembra quasi dirci che non basta il servizio, l’aiuto materiale, il fare; se manca l’ascolto non c’è vera ospitalità. Marta è tutta presa da quanto deve fare per accogliere Gesù ma rischia, afferma il Papa, “di rovinare un momento indimenticabile di incontro. Marta è una persona generosa, ma Dio la chiama a qualcosa di più bello della stessa generosità. La chiama a uscire da sé”. Si lamenta con Gesù perché la sorella l’ha lasciata sola a fere le faccende. Maria, leggiamo in Luca, “ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. Ha compreso, cioè, che accogliere il Signore significa stare davanti a lui senza pensare troppo alle cose da fare; “ha come perso il senso del tempo, conquistata – afferma Leone XIV – dalla parola di Gesù. Non è meno concreta di sua sorella e neanche meno generosa. Ha però colto l’occasione”.
Abramo, Marta e Maria, afferma il pontefice nell’omelia, ci ricordano “che ascolto e servizio sono due atteggiamenti complementari con cui aprirci, nella vita, alla presenza benedicente del Signore”. Il loro esempio, in questo tempo dedicato anche al riposo, “ci invita a conciliare, nelle nostre giornate, contemplazione e azione, riposo e fatica, silenzio e operosità, con sapienza ed equilibrio, tenendo sempre come metro di giudizio la carità di Gesù, come luce la sua Parola e come sorgente di forza la sua grazia, che ci sostiene oltre le nostre stesse possibilità”. È anche un modo per promuovere “nella solidarietà, nella condivisione della fede e della vita, una cultura di pace, aiutando anche chi ci sta attorno a superare fratture, ostilità e a costruire comunione: tra le persone, tra i popoli, tra le religioni”.
Prima di lasciare Albano per raggiungere Castelgandolfo per l’angelus il Papa si ferma a salutare i giornalisti presenti e parla ancora di pace: “il mondo non sopporta più, c’è tanto conflitto, tante guerre, bisogna lavorare davvero per la pace”.
Mai il mondo ha avuto classi dirigenti così incapaci di vedere la luna oltre il loro dito. Viene in mente la frase shakespeariana dal Re Lear: “Sono tempi terribili quelli in cui i pazzi guidano i ciechi.” A sospirare nell’opera del drammaturgo, è il conte di Gloucester, nella prima scena del quarto atto. Nel giro di poco tempo, Trump ha diffuso il comunicato sull’entità del trenta per cento di dazi da imporre all’Ue e ad altri ventitré stati, che gli consentirà di avere la quarta maggiore fonte di entrate del governo nazionale. I dazi non sono sempre uguali per tutti perché sono variabili secondo i settori merceologici. Se a ciò, si aggiunge anche l’andamento del tasso di cambio euro-dollaro, i Paesi europei si troveranno con un ulteriore dazio con un danno di circa il venti per cento per l’Italia. All’Ue la reazione alla lettera di Trump è stata cauta, privilegiando la volontà di tentare un dialogo con Trump per approdare a una soluzione in vista della quale la presidente Ursula von der Leyen ha deciso di sospendere la lista di contro dazi predisposti dall’Ue. L’imprevedibilità di Trump non va sottovalutata e non si esclude di intervenire attraverso la web tax che nuocerebbe alle big tech americane, la riduzione dell’export dei rottami di alluminio e di un pacchetto da oltre settanta miliardi contro le tariffe di Trump. Si vedrà se anche questa volta Trump rimodulerà la percentuale dei dazi e farà un passo indietro che consentirà qualche margine di recupero nei mercati europei. La strategia di Trump è di usare la guerra commerciale dei dazi per fare cassa e ripianare il deficit del bilancio federale che è la reale motivazione di queste recenti iniziative contro l’Ue. Altro discorso è l’annuncio sul mutamento di programma riguardo il sostegno all’Ucraina. Due settimane fa, Trump aveva ordinato la sospensione della consegna di armi, nel tentativo di far ragionare Putin. Nelle ultime ore, Trump ha detto di essere insoddisfatto dall’atteggiamento di Putin, che “parla in modo gentile e poi la sera bombarda tutti”, e, poi come Antonio nel Giulio Cesare (“Bruto è uomo d’onore”), ha aggiunto che non lo ritiene un assassino. Il nuovo piano americano permetterebbe all’Ucraina di passare ad azioni offensive attraverso l’uso di missili a lungo raggio in grado di raggiungere obiettivi in profondità nel territorio russo. Missili che si sommerebbero al sistema di difesa aerea Patriot, già avuti dall’esercito ucraino grazie al contributo tedesco finora implementato, ma che non è più possibile fornire all’Ucraina per carenza numerica. Oltre a ciò, Trump nell’incontro con il segretario generale della Nato Mark Rutte ha aggiunto che potrebbe anche imporre alla Russia dazi più drastici se non sarà raggiunto un accordo per fermare la guerra in Ucraina con tanto di ultimatum: entro cinquanta giorni. Questa decisione dovrebbe avere ripercussioni più forti sull’economia russa perché riguarda anche i Paesi che acquistano le esportazioni dalla Russia, grazie alle quali finora ha guadagnato miliardi di dollari. Nelle stesse ore a Kyiv, il ministro della difesa ucraino Umerov ha incontrato Keith Kellogg, inviato speciale di Trump, per trattare della produzione congiunta di armi in Ucraina, delle esigenze dell’esercito ucraino e delle sanzioni contro la Russia. È uno strappo nelle relazioni fra Usa e Russia oppure il filo rosso che lega le due amministrazioni non si è lacerato del tutto? Trump e Putin non si intendono sulle questioni di natura politica e internazionale, ma ci sono punti di contatto su questioni di business. Il primo aspetto da considerare è che non sono mai stati così amici, come la stampa occidentale rimarca, ma leader orientati a perseguire l’interesse della propria nazione, anzitutto con una elevata attenzione agli atteggiamenti dei rispettivi elettorati. Stanno facendo il gioco del coniglio, come nel film Gioventù bruciata – con James Dean – in cui due ragazzi lanciano contemporaneamente le loro auto verso un dirupo. Chi scende prima di arrivarvi è il coniglio, quello che continua ottiene la stima della comitiva. Il secondo aspetto riguarda chi finanzierà l’invio dei missili a lungo raggio in Ucraina. Dalle parole di Trump emerge che il costo dell’invio di queste armi spetterebbe ai Paesi europei aderenti alla Nato. Putin però potrebbe percepirlo come un coinvolgimento dell’Alleanza nel conflitto, con reazioni di una postura difensiva della Russia e conseguenze sul piano militare, richiamando in causa lo spettro nucleare. Ma vi è un aspetto che va evidenziato. Perché Trump minaccia di applicare i dazi entro cinquanta giorni durante i quali la Russia può avanzare sul suolo ucraino, prima dell’arrivo del generale inverno? Perché Trump dà questo vantaggio a Putin pur continuando a inviare armi a Kyiv, pagate, però, dagli europei? C’è una frase attribuita ad Andreotti, ma lui stesso ammise di averla sentita da un cardinale che citava colui a cui va attribuita la paternità della frase cioè papa Pio XI. La è: “A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”. Allo stato attuale delle cose sembra che la Russia e gli Usa stiano più accerchiando e indebolendo l’Europa, a spese dell’Ucraina. Non è che hanno il proposito di una spartizione, tipo Jalta nel 1945?
A trentatré anni da via D’Amelio: il seme della memoria
18 Lug 2025
di Giada Di Reda
Continua a fiorire lentamente, attraverso l’impegno e la memoria, il seme della lotta alla criminalità organizzata, piantato dal giudice Paolo Borsellino. Sono trascorsi 33 anni dalla strage di via d’Amelio, in cui il magistrato siciliano e gli agenti della sua scorta persero la vita per mano di Cosa nostra.
Erano le 16:58 del 19 luglio 1992, quando una Fiat 126, imbottita con 90 kg di esplosivo, saltò in aria davanti al civico 21 di via D’Amelio, a Palermo, sotto casa della madre del giudice Paolo Borsellino, che in quel momento si apprestava a farle visita. Quando scese dall’auto per suonare il citofono, fu azionato il telecomando che fece esplodere la vettura. L’attentato fu pianificato dopo appena 57 giorni dalla morte del collega e amico Giovanni Falcone; Paolo Borsellino era accompagnato da sei agenti di polizia; di questi persero la vita Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi (prima donna della scorta a cadere in servizio, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.
“La paura è normale che ci sia. In ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio”: parole da cui riecheggia la statura morale di un uomo fatto di carne e ossa, profondamente ‘umano’, che non ha negato la paura ma l’ha abbinata al coraggio di incarnare con fermezza i valori della giustizia e della responsabilità civile, dedicando tutta la sua carriera di magistrato alla lotta al ‘mostro’, l’organizzazione mafiosa più potente in Sicilia.
Un impegno presente nei discorsi, nelle interviste, negli scritti e in un’attività incessante, proseguita anche dopo la strage di Capaci: “Ho capito che la mafia mi ucciderà, ma non per questo smetterò di fare il mio dovere”.
Borsellino ha sempre creduto nei giovani, riponendo in loro una fiducia profonda, che li vedeva protagonisti del presente, e non solo del futuro: “Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due-tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per le organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare la società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. È questo mi fa essere ottimista”.
Borsellino comprese sin dall’inizio che la lotta alla mafia doveva partire dai giovani, offrendo loro l’opportunità di coltivare la cultura, imparare a riconoscere la bellezza e distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, accompagnandoli verso scelte libere e consapevoli. Egli ha creduto sempre nell’antimafia oltre la sola repressione, promuovendo un autentico percorso di educazione alla legalità. Un cammino in cui a entrare in gioco fossero le istituzioni, le agenzie di socializzazione, gli operatori culturali, tutti chiamati a cooperare per affrontare insieme una decisa e costante lotta al cambiamento.
I frutti di questo impegno, prendono forma anche nell’attualità: basti pensare alla notizia giunta appena tre giorni fa, che ha coinvolto lo scrittore e giornalista Roberto Saviano, da sempre attivo nella denuncia alla criminalità organizzata: lotta che in più di un’occasione ha messo a repentaglio la sua stessa vita.
Il 14 luglio, la corte d’appello di Roma, ha confermato la condanna a 18 mesi di reclusione, di Francesco Bidognetti, ex boss dei Casalesi – uno dei clan camorristici più temuti della criminalità organizzata campana, attivo anche nel Lazio, in Emilia-Romagna e all’estero – e del suo legale Michele Santonastaso, a cui sono stati attribuiti 14 mesi. La sentenza è avvenuta a seguito di minacce aggravate rivolte a Saviano già nel mirino per la pubblicazione di Gomorra nel 2006; successivamente, nel 2008, durante l’udienza del maxiprocesso contro i Casalesi – il cosìdetto Spartacus – Michele Santonastaso, il legale del boss, lesse un documento firmato da Bidognetti e da un altro boss Antonio Iovine, in cui con toni intimidatori, venivano menzionati Roberto Saviano, il magistrato Raffaele Cantone e la giornalista Rosaria Capacchione: un processo che si trasformò in una vero e proprio strumento di minaccia mafiosa. Questa sentenza, giunta a pochi giorni dalla strage di via d’Amelio, oltre a rendere giustizia a chi ha dovuto rinunciare alla propria libertà, racchiude un valore simbolico per l’intera collettività. È la prova che la giustizia non è indifferente di fronte agli abusi, che le parole – come ha affermato papa Leone XIV in occasione deldiscorso ai giornalisti – possono essere un’arma potente di difesa e denuncia contro le ingiustizie e la corruzione. Un pronunciamento, quello della Corte d’appello di Roma, che si pone nel solco dell’impegno di figure come quella di Borsellino, e di tutti coloro che hanno spianato la strada per la costruzione di una legalità a partire dalla cultura e la responsabilità condivisa.
E allora, il sacrificio di Paolo Borsellino, testimone della verità, non è stato vano. È la prova che l’azione, unita alla fiducia e alla speranza, può condurre – seppur lentamente – a cambiamenti che hanno il sapore di piccoli miracoli. La sua eredità, oggi più che mai, è un invito a scegliere da che parte stare, a non lasciarci piegare dalla complessità che rischia di assopire le nostre coscienze; a rimanere umani, attivi e uniti per guidare noi stessi e il prossimo verso l’autentica bellezza, quella del bene.
“Erano le 6 del mattino quando il 7 ottobre 2023 sono stato svegliato dal rumore delle bombe. Nella Striscia di Gaza ci siamo abituati, ogni tre o quattro mesi capita: io sono cresciuto così. Ho chiamato un mio amico per chiedergli se saremmo andati a lavorare, mi ha risposto che ero pazzo e che a lavorare non ci saremmo tornati più. Per la prima volta ha avuto ragione lui”: inizia così Joseph (nome di fantasia), giovane della Striscia, il suo racconto in una parrocchia toscana lo scorso 4 luglio.
“Vogliamo solo vivere in pace”
Non è facile per lui parlare, “è una cosa che non siamo abituati a fare, quando ci diciamo qualcosa della guerra lo facciamo in segreto, a bassa voce e senza dilungarci troppo”. Ad ogni modo, rassicura: “La mia famiglia non appartiene a nessun partito, siamo solo civili, vogliamo solo vivere in pace”. Nel 2023, sei mesi li aveva passati in Italia per imparare la lingua e studiare, “alla scadenza del mio permesso di soggiorno potevo scegliere se rimanere da clandestino o tornare a casa – racconta –. Avevo la possibilità di studiare in Egitto, allora ho passato lì due settimane, poi, non so perché, ho deciso di tornare a Gaza”. “Uscire dalla Striscia è molto difficile, ma per entrare non ci sono problemi – spiega –. Per due settimane ho lavorato, riprendendo l’occupazione che avevo lasciato, poi il 7 ottobre è arrivato”. Quel giorno “tutte le persone intorno a noi iniziarono a scappare – racconta –, era un sabato. Noi fino al mercoledì siamo rimasti nella nostra casa, avevamo fiducia che la situazione potesse migliorare. Nel frattempo, la casa di mia sorella, che con la sua famiglia era andata a rifugiarsi in chiesa, venne bombardata e rasa al suolo. Allora decidemmo di spostarci”.
Gaza, parrocchia Sacra Famiglia – ph Ilquddas Ara
La vita in parrocchia a Gaza
Inizia qui il racconto della vita nel rifugio della parrocchia cattolica della Sacra Famiglia, insieme ad altre 600 persone, mentre, poco lontano, la parrocchia ortodossa ospitava altri 500 cristiani. Le notti lì sono insonni e il giorno si cerca il riposo, mentre i sacerdoti organizzano la vita della comunità, tengono impegnate le persone ad ascoltare racconti biblici, spiegano la Parola del giorno, celebrano la messa e rimangono all’erta verso le 19 per carpire un po’ di connessione internet, che possa permettere di ricevere la quotidiana telefonata di Papa Francesco. “A dicembre la parrocchia venne circondata dai militari – continua Joseph –: per andare in bagno dovevamo strisciare per terra e potevamo farlo soltanto di notte. Lì, se qualcuno viene visto dentro ad un edificio, viene ucciso, a prescindere da chi possa essere”. Un giorno poi “ci accorgemmo che entravano delle schegge dalle finestre. Mia sorella, mentre scappava, è tornata indietro a prendere suo figlio e una scheggia ha attraversato la sua gamba destra e le ha ferito la sinistra. Finché i militari non si sono allontanati, non siamo potuti uscire. Dopo due settimane, in un ospedale vicino, sovraccarico di feriti, è stata operata e le hanno disinfettato la ferita”.
Una via di uscita
È da quel momento che la famiglia di Joseph inizia a cercare una via per uscire da Gaza. “Come comunità cristiane, nonostante la gente venisse costretta a spostarsi dal nord al sud della Striscia, avevamo scelto insieme di non lasciare le chiese, perché non volevamo ritrovarle distrutte, come era accaduto alle nostre case. Mia sorella, però, doveva partire per curarsi” dice. Per uscire dal valico di Rafah, al tempo, veniva imposto di pagare 5 mila dollari a testa: «All’inizio volevamo vendere tutto quello che avevamo, anche i nostri vestiti, per poter uscire, poi però il valico è stato bombardato e chiuso” ricorda. Da gennaio a maggio, invece, il cibo iniziò a mancare: “Trovavamo solo mangimi per animali, che impastavamo per creare delle focacce. Li mangiavamo come se fosse stato pane – racconta –. Da un lato chiedevamo a Dio perché ci aveva scelti per vivere tutto questo, dall’altro vedevamo che non ci abbandonava. Io mangiavo questi mangimi, ma non sono mai andato a dormire senza aver mangiato. La messa alle 18 e il rosario erano diventati momenti importanti: quella situazione da noi ha alzato il livello della fede e della speranza” spiega.
L’arrivo in Italia
Anche dalla Toscana, intanto, chi conosce Joseph non smette di pregare e a settembre arriva la notizia che attraverso un’organizzazione internazionale il gruppo dei fratelli gazawi è riuscito ad uscire dalla Striscia da un valico usato solo per le merci prima del 7 ottobre. “Ci siamo arrivati in ambulanza – spiega Joseph –. Normalmente per attraversare la Striscia ci vuole mezz’ora, noi ci abbiamo messo 12 ore e il viaggio fino all’Italia, dove siamo arrivati in aereo partendo dalla Giordania, è durato una settimana per via dei continui controlli”. “La mia storia, nonostante tutto – conclude – non è delle più gravi. Adesso la situazione è molto peggiorata, ogni giorno veniamo a sapere di qualche nostro conoscente che è stato ferito o che si è dovuto allontanare dalla chiesa per qualche motivo e nessuno sa se tornerà vivo. Tutto questo lì è molto normale”.
Una sorpresa attende i devoti di Mamma Sant’Anna che nei prossimi giorni si recheranno in città vecchia per i festeggiamenti a lei dedicati: il ritorno alla originaria bellezza della chiesetta in largo Civitanova, fra piazza Fontana e il pendio San Domenico. Proprio in questi giorni sono terminati i lavori realizzati grazie all’intervento di Formedil, commissionati dalla parrocchia della basilica cattedrale, che ne ha competenza territoriale.
Ce ne ha parlato l’architetto Paolo Campagna, presidente di Formedil: “Non conoscevo la collocazione di questo luogo di culto, anche se ne avevo sentito parlare. Potervi accedere, quindi, per me è stata una lietissima sorpresa: una chiesetta molto umile, raccolta ma con le sue pregevolezze architettoniche ma abbisognevole di un certo restyling – ha detto –. Innanzitutto abbiamo scartavetrato le pareti interne liberandole da una pittura che ne mortificava la bellezza, provvedendo quindi a ritinteggiarle di giallo paglierino e, in alcuni punti, di bianco. Abbiamo anche provveduto ad eliminare alcune superfetazioni, nei pressi dell’altare, costituite da alcune cornici in legno ammalorate, attorno a delle nicchie ormai vuote, che dovevano ospitare statue di santi. Ritengo che i risultati dell’intervento siano soddisfacenti e che riscuoteranno il consenso dei devoti di Mamma Sant’Anna”.
L’amarezza è costituita però da un certo abbandono della zona di largo Civitanova per gli edifici abbandonati, anche se nelle vicinanze c’è un ostello di cui pareva prossima la riapertura. “È una situazione che riflette, in piccolo, il degrado dell’intera città vecchia che da tempo attende un intervento complessivo di risanamento da parte dell’ente locale. Davvero un peccato lasciar degradare questo grande e interessante patrimonio storico-architettonico costituito dall’Isola!”.
foto Antonello Cafagna
La particolarità dell’intervento alla chiesetta di Sant’Anna è costituito dal coinvolgimento di sei giovani migranti, selezionati tra i diciotto che hanno partecipato a un progetto formativo per operai edili, realizzato d’intesa fra Formedil, Ance e Prefettura. Ne ha parlato il dott. Claudio Capraro di Formedilm che ha seguito la vicenda: “I corsi sono iniziati lo scorso autunno e sono terminati una decina di giorni addietro, con la cerimonia di consegna degli attestati di partecipazione. Già nove dei partecipanti sono stati assunti da aziende della provincia – ha spiegato –. I giovani che hanno lavorato in città vecchia, d’età compresa tra i 18 e i 24 anni, provenienti da Burkina Faso, Mali e Camerun, sono stati impegnati nella scartavetratura e ritinteggiatura degli interni della chiesetta, mostrando buona volontà e attenzione alle disposizioni degli operai dell’azienda incaricata dei lavori”.
La riapertura al culto della chiesetta avverrà venerdì 25 luglio durante la celebrazione eucaristica delle ore 18.30 che sarà presieduta dall’arcivescovo mons. Ciro Miniero, che benedirà i nuovi abiti della Titolare e il simulacro restaurato di San Gioacchino, che sarà portato in processione sabato 26, assieme a all’immagine di Mamma Sant’Anna.
La chiesetta di largo Civitanova, ricordiamo, fu edificata nel 1914 dopo l’abbattimento di quella più antica (sembra già esistente nel 1200) intitolata a San Nicola in Civitanova, ormai pericolante. L’allora rettore, mons. Solito, la fece ricostruire con altari in marmi policromi, stucchi alle pareti ed affreschi alla volta, opere del pittore Sampietro. La facciata è in stile romanico-pugliese con grande arco monocuspidale e piccola rosa in alto nel centro. Sul lato destro è visibile un piccolo campanile, dal quale (si racconta) pendeva una funicella perché chiunque a qualsiasi ora della giornata, o della notte, potesse tirarla per suonare la campana, invitando così a pregare “Mamma Sand’Anne” per una partoriente.
Concessa l’Aia all’Ilva: produrrà 6 milioni di tonnellate, nonostante il coro dei “no”
17 Lug 2025
di Silvano Trevisani
L’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, necessaria per l’agibilità produttiva dello stabilimento siderurgico, è stata concessa dalla conferenza dei servizi riunita al ministero dell’Ambiente. Nonostante la netta contrarietà di Regione Puglia, Provincia di Taranto e Comuni di Taranto e Statte, l’autorizzazione viene concessa e così l’Ilva potrà produrre nel limite di sei milioni di tonnellate annue per 12 anni. Questo, dunque, l’esito della discussione del Pic (Parere istruttorio conclusivo), un testo fatto da 477 prescrizioni ambientali che l’ex Ilva deve rispettare. L’Aia, che comprende anche tutte quelle imposte dall’Istituto superiore di sanità, è comunque temporanea e verrà rivista a partire da agosto, in base all’accordo di programma interistituzionale che dovrebbe scaturire dall’incontro già fissato per il 31 luglio. Ma il condizionale è d’obbligo, alla luce della complessità della materia e delle scelte che dovranno essere operate per il futuro, e della posizione di netta contrarietà all’Aia così com’è espressa sia dagli enti locali che delle organizzazioni ambientaliste. In alcuni casi prevede di applicare i valori dell’Aia vigente per un periodo di circa sei mesi in attesa di ulteriori dati.
Le parole dette dal ministro delle Imprese, Adolfo Urso, nel suo intervento al congresso della Cisl – “Taranto continuerà, lo stabilimento è salvo. La siderurgia italiana è salva, l’industria italiana può ancora avere l’acciaio” – la dicono tutta sul modo di vedere le cose da parte del governo. Che si assume la responsabilità di garantire una fase ancora abbastanza lunga di produzione ‘a carbone’, in vista di un passaggio alle tecnologie decarbonizzate, sulla cui consistenza e tempistica non vi è ancora nulla di deciso. Come sulla vendita dell’azienda.
Proprio la mancanza di parole chiare sulla decarbonizzazione aveva indotto il governatore Emiliano, già in fase di avvio dei lavori della conferenza dei servizi, a esprimere la sua contrarierà all’Aia.
Sia il sindaco Bitetti che gli ambientalisti avevano chiesto un ulteriore rinvio, motivato dalla necessità di raccogliere alcuni dati che sarebbero mancanti in fatto di impatto sulla salute dei lavoratori e cittadini. Bitetti aveva evidenziato la gravità e la persistenza del rischio sanitario, documentato da Arpa, AReSS, Asl, Oms e Istituto superiore di sanità. “Non si può rilasciare alcuna autorizzazione senza certezze sulla salute dei cittadini, serve una valutazione sanitaria preventiva, non posticipata”.
Il Comune ha denunciato l’assenza di un piano di decarbonizzazione da parte del gestore e ha proposto una serie di prescrizioni vincolanti, tra cui: dismissione graduale del ciclo integrale, monitoraggio ambientale potenziato, sorveglianza epidemiologica attiva, clausole di revisione e sanzioni in caso di inadempienze. “Il nostro orizzonte – ha ribadito il sindaco – non è quello della prosecuzione di un ciclo integrale altamente impattante, ma quello del suo superamento. L’istanza del gestore, così com’è, è totalmente incoerente rispetto a questo percorso.
Taranto ha già dato troppo. La città ha diritto a un futuro sano, sostenibile e sicuro”.
Numerose le prese di posizioni contrarie, tra le quali quella di Legambiente, nei confronti di un procedimento di rilascio, ritenuto “opaco e incapace di offrire le risposte necessarie in termini di tutela della salute pubblica, protezione ambientale e riconversione industriale”.
Parole molto dure utilizza il consigliere comunale del Pd, Luca Contrario, da sempre in prima linea contro la gestione dell’Ilva, che definisce l’Aia “una patente per uccidere attraverso impianti pericolosi, obsoleti e inquinanti… un gesto criminale che invece il ministro Urso accoglie con parole festanti che offendono la memoria della nostra terra”.
Di tutt’altra opinione le organizzazioni sindacali che già nei giorni scorsi, nell’incontro avuto con il ministro Urso, avevano dichiarato che non ci sarebbe potuta essere nessuna innovazione senza la continuità produttiva. Ma hanno posto tutta una serie di questioni circa il futuro dell’azienda e dello stabilimento di Taranto. A partire dalla necessità di accelerare la svolta green e di provvedere a una diversa fornitura di gas, rispetto alla nave gasiera.
Ma di tutto questo si parlerà prossimamente, in vista dell’accordo di programma, che non sarà facile da sottoscrivere in pochi giorni.
“Uscire dal buio verso la luce” è un sogno diventato realtà per Zohra, giovane profuga afghana di 19 anni, fuggita con la sua famiglia in Pakistan e atterrata a Fiumicino nel pomeriggio di giovedì 10 luglio, grazie ad un volo speciale offerto dalla Ong Solidaire, proveniente da Islamabad, nell’ambito dei corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio. Il Terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino si è riempito di cori di benvenuto e dei sorrisi e sguardi carichi di aspettative dei 119 profughi provenienti dall’Afghanistan che hanno trascorso gli ultimi 4 anni in condizioni precarie come rifugiati in territorio pakistano. Tra loro prevalentemente donne con bambini, ma anche uomini e giovani che si sono ricongiunti con le loro famiglie.
“Da quando i Talebani hanno preso il potere, hanno cominciato a mettere limiti alle nostre vite, alle vite delle donne, chiudendo prima le università, poi più avanti le scuole, poi i corsi e poi le attività lavorative” racconta Zohra, che all’epoca era un’adolescente con tanti sogni. Era il 15 agosto 2021 quando la vita del popolo afghano è cambiata radicalmente e la situazione è diventata sempre più critica, soprattutto per le donne sottoposte a continue restrizioni. “Io raccontavo quanto accadeva ogni giorno e pubblicavo” dichiara Zhora, che fa comprendere l’importanza della denuncia e della condivisione attraverso una rete di contatti. L’intraprendenza di questa giovane donna le ha permesso di ottenere una possibilità concreta di salvezza per lei e per i suoi familiari, sfidando enormi pericoli. “Appartengo all’etnia hazāra e sono di religione sciita” precisa Zohra, esponente di una minoranza afghana, sia etnica che religiosa, perseguitata duramente dai talebani fino alla pulizia etnica del 2001 e soprattutto negli ultimi 4 anni con il loro ritorno al potere.
Grazie alla sua denuncia è entrata in contatto con un referente della Human Rights Support, associazione no profit che si occupa di sostegno umanitario per la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. Tramite lui ha conosciuto alcuni volontari della Comunità di Sant’Egidio, promotrice del corridoio umanitario insieme allo Stato italiano e ad altre associazioni, che le ha permesso di arrivare in Italia. Qui Zohra potrà cominciare la rinascita, insieme alla sua famiglia composta da papà, mamma, tre sorelle e un fratello.
In Italia potrà recuperare la normalità di una vita che si addice alla sua età, ritrovando la libertà e riappropriandosi della possibilità di esprimersi e crescere senza paura. Nei suoi occhi si legge la “speranza di poter avere una vita diversa, di poter riprendere la penna in mano, di poter ridisegnare la vita che desideravo e che desiderava la mia famiglia”. La Comunità di Sant’Egidio le ha dato “l’opportunità di essere evacuata”, adesso, attraverso un processo di accoglienza ed integrazione, potrà coltivare il suo sogno: “vorrei diventare un medico”. Zohra è serena e determinata, consapevole dei passi che dovrà compiere per realizzare il suo progetto di vita: “il primo è imparare l’italiano, conoscere la lingua italiana, la cultura italiana. Da lì andare a scuola, all’università, per diventare un medico”. Questo lungo viaggio, dopo anni di condizioni di vita insostenibili e limitanti, giunte finalmente al termine, si è rivelato “una sensazione, un’esperienza inimmaginabile, indescrivibile per me, ma anche per la mia famiglia”. La giovane afghana è pronta ad accogliere la luce e a cominciare la sua nuova vita nella nuova destinazione che è stata assegnata a lei e ai suoi familiari.
“Colpita la parrocchia latina della sacra Famiglia di Gaza. 6 feriti, di cui 2 gravi. Lievemente ferito il parroco, padre Gabriel Romanelli che si trova attualmente in ospedale”. A dichiararlo è il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa. La parrocchia attualmente ospita circa 500 sfollati cristiani. Poco fa un aggiornamento del patriarcato latino parla di 6 feriti di cui 2 in condizioni disperate. Non ci sarebbero quindi vittime, al momento.
Mons. Miniero alla festa della Madonna del Carmine
L’auspicio dell’impegno di ognuno per il bene della comunità
17 Lug 2025
di Angelo Diofano
“Siate sempre portatori di quell’amore con il quale Maria ha amato noi e Dio, perché attraverso le opere di carità possiate continuare a svolgere quella che è la vostra missione, nella nostra società e nella nostra comunità”: con questo invito l’arcivescovo mons. Ciro Miniero, prima di impartire la benedizione, ha concluso mercoledì 16 in piazza Giovanni XXIII a Taranto la solenne celebrazione eucaristica per la festa di Maria Santissima del Monte Carmelo, chiudendo così l’anno santo straordinario concesso da papa Francesco per i 350 anni dell’arciconfraternita del Carmine.
A margine, in chiesa, dopo l’imposizione degli scapolari ai parroci e ai sacerdoti della vicaria concelebranti, abbiamo chiesto a mons. Miniero di specificare il significato di questo anno giubilare particolare per i 350 anni dell’arciconfraternita. “Con tutta la comunità in questo anno giubilare particolare abbiamo chiesto alla Madonna del Carmine di aiutarci a essere sempre pronti, come Lei ha fatto, a scegliere il bene per poter diffonderlo attraverso le opere quotidiane. Inoltre sono sicuro che la Beata Vergine concederà all’arciconfraternita di continuare sempre più nel solco di quella tradizione di carità che la contraddistingue particolarmente, essendo, così, segno dell’amore di Dio in mezzo a noi attraverso il bene quotidiano”.
E per la città qual è il bene da cercare?
“Che ognuno – ha detto l’arcivescovo – possa vivere in salute e in pace. Credo che ogni persona debba lavorare per questo”.
E lei, mons. Miniero quale grazia ha chiesto alla Madonna del Carmine?
“Quella di convertirmi sempre di più al Signore” – è stata la sua risposta.
Al MArTa mappe di orientamento e stazioni didattiche sensoriali per migliorare l’accessibilità
17 Lug 2025
di Silvano Trevisani
Il Museo archeologico nazionale di Taranto diventa uno tra i musei che, a livello internazionale, ha deciso di migliorare la propria offerta culturale in termini di accessibilità, inclusione e fruizione sempre più interessante e coinvolgente.
Stella Falzone, direttrice del MArTa, ha presentato il nuovo progetto realizzato all’interno delle sale del museo tarantino, in collaborazione con l’agenzia francese Tactile Studio, specializzata in design inclusivo, mappe di orientamento e stazioni didattiche sensoriali per migliorare l’accessibilità e il wayfinding del Museo.
“Frutto di un’accurata ricerca e progettazione condivisa – spiega la direttrice – le mappe, i 3d, le postazioni tattili e olfattive che inauguriamo oggi sono un nuovo paradigma di conoscenza per ogni tipo di pubblico, perché mettono in moto tutti i sensi e stimolano la comprensione e la memoria di quella storia che noi abbiamo il dovere di preservare e promuovere”.
La progettazione di un percorso di mediazione culturale del MArTa, finanziato con fondi Pnrr, ha portato alla creazione di una pannellistica tattile all’avanguardia, fruibile attraverso tutti i sensi. Il progetto è stato realizzato attraverso la curatela tecnico-scientifica dei funzionari del MArTa, l’architetto Serena Piroddu e l’archeologa Agnese Lojacono che hanno ideato i percorsi poi realizzati dall’agenzia Tactile studio.
Le stazioni tattili installate al MArTa sono di tre tipologie:
dispositivi di orientamento: tre mappe tattili-visive di orientamento per guidare i visitatori attraverso i diversi livelli del museo, posizionate in modo tale da consentire una lettura chiara e intuitiva del percorso di visita. Una quarta postazione di benvenuto, situata nella hall al piano terra, comprende un modello 3D dell’edificio museale, accompagnato da una planimetria tattile. Tali strumenti facilitano la navigazione autonoma, in particolare per i visitatori con difficoltà visive o cognitive;
segnali direzionali per facilitare l’orientamento durante la visita;
stazioni didattiche: i pannelli approfondiscono alcuni importanti reperti della collezione del museo. Per rendere l’esperienza più completa ed evocativa, con un approccio sensoriale e inclusivo, due di essi hanno anche la componente olfattiva per far immergere il visitatore in antichi scenari, associando determinati odori a specifici contesti e reperti. Tutti i manufatti sono inoltre dotati di testi in lingua braille per ipovedenti e di qrcode che permettono di ascoltare la descrizione dei pannelli didattici in lingua italiana e inglese.
“Toc Toc”: un’estate di gioco, fede e meraviglia all’istituto Maria Ausiliatrice di Taranto
Nei cortili e nei saloni dell’istituto di via Umbria, suore animatori e volontari hanno dato vita a due esperienze indimenticabili: il Centro estivo e l’Estate ragazzi che hanno coinvolto decine di bambini e ragazzi
Cosa accade quando si apre una porta su un mondo nuovo, ricco di magia, giochi e momenti di riflessione? È successo davvero quest’estate, nei cortili e nei saloni dell’istituto Maria Ausiliatrice di Taranto, dove suore, animatori e volontari hanno dato vita a due esperienze indimenticabili: il Centro estivo e l’Estate ragazzi che, insieme, hanno coinvolto decine di bambini e ragazzi dalla prima elementare alla terza media.
Il Centro estivo che è in dirittura d’arrivo, dal 10 giugno al 18 luglio ha visto susseguirsi tanti momenti di condivisione e interscambio. Tutte le attività sono state animate secondo lo spirito salesiano e hanno visto la partecipazione, ogni mattina, di numerosi ragazzi impegnati con giochi a squadre, balli di gruppo, sport e attività laboratoriali. L’attenzione dei partecipanti si è poi concentrata su attività coinvolgenti e formative come i laboratori di archeologia, danza e ginnastica (che sono stati i più gettonati); tutte attività pensate per stimolare corpo, mente e fantasia.
foto G. Leva
Il filo conduttore delle attività pensante per il Centro estivo e per l’Estate ragazzi (che si è svolta dal 16 giugno all’11 luglio), è stato il tema “Toc Toc”, ispirato al magico mondo delle Cronache di Narnia. Un viaggio simbolico attraverso l’armadio di Lewis, metafora perfetta del cammino interiore che ogni ragazzo è chiamato a compiere: un passaggio dal quotidiano a un altrove fatto di crescita, coraggio, amicizia e fede.
Aprire una porta significa, infatti, scegliere di mettersi in gioco, uscire da sé stessi per incontrare l’altro, affrontare le proprie paure, riconoscere la bellezza del quotidiano anche nei momenti più complicati. Il passaggio simbolico attraverso l’armadio di Narnia è diventato, per tanti bambini e ragazzi, una metafora concreta di crescita.
foto G. Leva
Ogni pomeriggio dell’Estate ragazzi è stato aperto con un momento di accoglienza, in cui sorrisi e giochi rompevano il ghiaccio e preparavano il cuore alle attività del giorno. Poi spazio al divertimento con i giochi a squadre, lo sport, la formazione divisa per fasce d’età e, nelle giornate più calde, gli amatissimi giochi d’acqua, che hanno strappato risate e regalato tanta tanta freschezza. Ma non solo gioco: l’Estate ragazzi è stata anche laboratorio di talenti. Art attack, ballo, batteria e teatro hanno offerto ai ragazzi occasioni per esprimere la propria creatività, scoprire passioni e imparare a collaborare.
Tutte le giornate si sono poi concluse con un momento speciale: la ‘buonanotte’: un breve saluto spirituale e formativo che ha visto la presenza di alcuni sacerdoti tra cui: don Giovanni Chiloiro, don Marco Albanese, don Francesco Magnelli e il diacono don Antonio Acclavio. Tutti hanno saputo arricchire le giornate dei piccoli partecipanti donando parole profonde e semplici, capaci di toccare il cuore e regalare gioia.
Attraverso i giochi sia i ragazzi del Centro estivo che quelli dell’Estate ragazzi hanno imparato a perdere e a rialzarsi, a collaborare, a riconoscere il valore degli altri. Perché è proprio giocando che si diventa grandi nel modo più sano: si è chiamati ad imparare a fidarsi degli altri, a condividere, a rispettare le regole, a mettersi al servizio della squadra.
Un grazie a chi ha reso tutto questo possibile
Dietro ogni sorriso, ogni gioco, ogni laboratorio, ci sono stati volti, mani, cuori che hanno lavorato con passione e dedizione, all’unisono con un unico obiettivo. Il Centro estivo è stato reso possibile grazie alla presenza e alla guida delle suore Figlie di Maria Ausiliatrice e all’entusiasmo delle animatrici, che ogni giorno hanno accompagnato i bambini con cura e allegria.
L’Estate ragazzi, invece, è stata una macchina educativa in movimento costante, resa viva dal lavoro corale della suora responsabile dell’oratorio e dai numerosi animatori, a partire dai più piccolo fino ad arrivare ai più adulti, che hanno scelto di cooperare mettendosi in gioco per la gioia e l’entusiasmo dei più piccoli. Ognuno, con i propri talenti e la propria unicità, ha contribuito a costruire un’esperienza ricca di relazioni autentiche, divertimento e valori.
L’impegno silenzioso ma fondamentale da parte di tutti è stato il cuore pulsante di queste settimane: un’esperienza di servizio vissuta con spirito di famiglia, secondo lo stile di don Bosco, che continua a vivere nei piccoli gesti di ogni giorno. Il loro essere ‘presenza che educa’ è stato silenzioso ma fondamentale. Con piccoli gesti, con sguardi, sorrisi e parole semplici hanno incarnato quel carisma salesiano che non si apprende solo sui i libri, ma con la vita condivisa.
Anche quest’anno, l’Estate ragazzi e il Centro estivo si sono confermati non solo un’occasione di svago durante la pausa scolastica, ma un vero e proprio cammino educativo e spirituale. Un’estate che non ha solo fatto divertire, ma ha lasciato tracce, aperto porte e piantato semi che, come nelle Cronache di Narnia, forse daranno frutto proprio quando meno ce lo aspettiamo.
L’augurio è che questi ragazzi, un giorno, possano ricordare questa estate come il momento in cui hanno imparato a credere in sé stessi, negli altri e nella bellezza della gioia condivisa.
“Confidando nell’aiuto materno della Vergine Santissima per crescere nella fraternità (…) impegniamoci col Suo aiuto e con tutte le nostre forze a camminare con tutti gli uomini di buona volontà per edificare un mondo secondo il cuore di Dio, per confessare apertamente che la fede, la speranza e la carità sono il fondamento di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione”: con le parole dell’arcivescovo mons. Ciro Miniero, tratte dall’omelia in occasione del pellegrinaggio giubilare a Roma del 18 giugno scorso, don Francesco Imperiale, priore dell’arciconfraternita del Carmine e parroco alla Maria ss.ma del Monte Carmelo di Martina Franca, annuncia i solenni festeggiamenti in onore di Maria Santissima del Monte Carmelo, iniziati mercoledì 16 luglio con la professione dei nuovi associati dell’arciconfraternita durante la santa messa presieduta dal vicario foraneo don Mimmo Sergio e con l’ammissione ai voti temporanei e rinnovo delle promesse del Terz’ordine carmelitano; in serata ha celebrato l’eucarestia mons. Salvatore Ligorio, arcivescovo emerito di Potenza.
Sabato 19, alle ore 18.30, ci sarà la benedizione e la consegna degli abitini della Vergine del Carmelo ai bambini e alle mamme in dolce attesa; alle ore 20 don Martino Mastrovito, parroco alla Regina Mundi, celebrerà la santa messa durante la quale verrà consegnato il riconoscimento ‘Testimonianza carmelitana’ alla memoria del priore Piero Massafra; alle ore 20 ci sarà l’accensione della grandiosa illuminazione della ditta Faniuolo di Putignano-Bari e alle ore 21 il concerto dei ‘Jazzabanna’, musica popolare dall’Alto Salento alla Bassa Murgia.
Domenica 20, sante messe saranno celebrate alle ore 7 – 8 – 9 – 10 – 11; alle ore 18 la celebrazione eucaristica sarà presieduta da don Damiano Nigro, parroco alla Madonna della Sanità; alle ore 19.30 uscirà la processione e, al rientro, si terrà la consacrazione della città alla Madonna; alle ore 21.30, concerto in piazza della banda musicale ‘Città di Martina Franca’ diretta dal m° Caterina Santoro.
Infine domenica 27, alle ore 9, avrà luogo la santa messa di ringraziamento.