Spirito Santo, domenica si conclude la missione mariana
28 Nov 2025
Da giovedì scorso si sta svolgendo alla parrocchia dello Spirito santo, nella zona di Taranto2, la ‘Missione mariana del Rosario di Pompei’. Domenica è prevista la conclusione.
Ogni giorno la chiesa aprirà alle ore 7.30; alle 7.45 ci sarà il ‘Buongiorno a Maria’; nell’arco della giornata seguirà la recita del santo rosario e la supplica alla Madonna di Pompei.
Sabato 29 alle ore 16 sarà dedicato alla vita e alla speranza, in modo particolare ci sarà la benedizione delle mamme e dei bambini; alle ore 18 presiederà la santa messa l’arcivescovo mons. Ciro Miniero cui seguirà il rosario dei giovani.
Domenica 30, infine, dopo la santa messa delle ore 10 sarà recitato il rosario dei piccoli; al termine, la processione di saluto.
“Chi ne conosce la storia, sa bene – dice il parroco don Francesco Tenna – che il santuario di Pompei è un invito ad avere speranza contro ogni speranza come ricorda l’apostolo Paolo. Di fronte all’abbandono e al degrado umano in cui vivevano gli abitanti di Valle di Pompei, San Bartolo Longo non si rassegna, anzi! Decide di ripartire da Cristo e dal rosario per ricostruirne il tessuto umano e sociale. Pompei, allora, non è mero devozionismo ma è preghiera che si fa impegno e carità. Anche noi, che ci troviamo in quartiere di periferia, spesso dimenticato, non vogliamo farci cadere le braccia ma imparare a fare la nostra parte, a non cadere nell’indifferenza, a tenere coeso l’intreccio delle relazioni”.
All’ultima tornata di elezioni regionali di quest’anno a prevalere è davvero stato l’astensionismo che ha assunto la forma di massa, trasformandosi nel primo partito dell’arco parlamentare con una insolita maggioranza assoluta. Il calo dell’affluenza evidenzia che poco più di quattro elettori su dieci sono andati a un seggio, cifra che mostra il distacco sempre più complesso fra rappresentanza politica e paese reale. Non è più una flessione fisiologica, ma una tendenza consolidata, e, come ogni tendenza, richiede più di un usuale lamento. L’errore più frequente, di fronte a questi numeri, è interpretare l’astensione come gesto antisistema, come rigetto radicale della politica. Ma la realtà è sicuramente più complessa. In Italia, come in molte democrazie occidentali, si sta affermando una nuova forma di disintermediazione politica che si manifesta con il disimpegno elettorale. Non è un disimpegno gridato ma è diffuso, è una astensione silenziosa, che non accusa né proclama, ma che disconnette la politica da buona parte del paese o buona parte del paese dalla politica. È una tipologia di sfiducia mite, ma strutturale, che ha esiti molto più gravi di quanto sembri. Perché l’assenza di partecipazione non svuota il sistema ma lo irrigidisce ancora di più. Più il numero degli elettori cala e più cresce il peso relativo di chi vota. È un dato oggettivo. Il risultato concreto è un circuito democratico formalmente perfetto, ma sostanzialmente ristretto, in cui gruppi organizzati e corporazioni pesano in modo sproporzionato: è la democrazia che funziona, ma solo per chi ha voce e mezzi per esercitarla, con tanti altri che restano spettatori. Il tema dell’astensione è stato oggetto di richiami del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale, nel suo discorso alla Associazione Nazionale dei Comuni, ha parlato di “preoccupante flessione dell’esercizio del voto”. “Non possiamo accontentarci di una democrazia a bassa intensità. […] La rappresentatività è tutta altra cosa, va perseguita e coltivata con grande determinazione”. In altre parole, il pericolo è che si apra la strada a una democrazia competitiva, discriminatoria, elitaria, nella quale il voto diventa il fattore moltiplicatore di potere per interessi già abbastanza forti e in cui la rappresentanza, piuttosto che equilibrare il pluralismo, finisce per cristallizzare disuguaglianze. In sintesi, la disaffezione al voto, molte volte, finisce per rafforzare quelle stesse dinamiche e cause che l’hanno creata, creando una sorta di corporativismo politico che si afferma per inerzia e per vuoti, che nessuno è stato in grado di colmare. La domanda da porsi, allora, non è se i partiti siano ancora credibili, ma se riescano a generare, oltre che senso, consenso, proposta e direzione. Il tema cruciale non è ideologico, non è una crisi politica della destra o della sinistra, ma è una crisi di progetto della politica. Quella politica che spesso appare come una successione di dichiarazioni lampo nei telegiornali, fandonie, polemiche, provocazioni, slogan, spot, eruzioni social e danze, ma che è e può essere tanto altro. Fuori dai palazzi, c’è il mondo vero, c’è una società che chiede risposte su salari, casa, sanità, mobilità sociale, futuro e che, spesso, non le ottiene. Anche da ciò nasce il disincanto, che non è collera, non è rabbia, ma stanchezza, che è più difficile da scomparire della protesta. Quando la politica non decide, o dà l’impressione di non saperlo fare, smette di attirare e di essere lo strumento per il progresso desiderato dai cittadini. Si mura in un linguaggio autoreferenziale, in rituali incomprensibili e in conflitti che sembrano lontani dalla vita vera. Ciò che resta è un potere senza mandato, una macchina che confeziona norme, ma non fiducia. La soluzione non è moltiplicare le campagne che motivano al voto, ma nel restituire al voto una funzione reale. Se i cittadini percepissero che andare alle urne significa indirizzare le scelte su scuola, sanità, tasse, trasporti e lavoro, la partecipazione migliorerebbe, non per dovere civico, ma per utilità democratica. In questo senso, la responsabilità non è solo dei partiti, ma anche delle istituzioni, dei media, delle élite culturali. Serve una alleanza per ricostruire un lessico politico credibile, fatto di responsabilità, competenza, realismo. Serve, parallelamente, una nuova cultura della decisione: misurata, efficiente, fondata su una idea chiara di bene comune. Non occorre, invece, cercare di accontentare tutti o cadere nelle illusioni dell’antipolitica: la necessità, o il dovere, è, invece, quella di ascoltare le istanze del territorio e dei cittadini e di avere il coraggio di scegliere, di incidere, di utilizzare la politica come mezzo per realizzare e non solo come fine. La reale vittoria non è, non deve e non può essere il trasloco dei voti da sinistra a destra o da destra a sinistra, la affermazione in questa o in quella regione o, ancora, la stabilità dell’azione di governo, alle cui spalle si nasconde sovente la stabilità del proprio sbarcare il lunario. La vittoria è tutta altra cosa: sarà vera, reale, credibile e autentica se torneranno a votare milioni di elettori che, di questi partiti, non si fidano più. La democrazia sopravvive se si sbaglia. Muore se non ci si fida più.
Le imprese più belle sono quelle complicate. Alle volte, però, è bello vincere facile: il goal lampo di Francesco Losavio allo stadio Italia di Massafra, dopo appena novanta secondi, il raddoppio di Pablo Aguilera facevano pensare, illudere su un successo largo del Taranto sul Novoli. Alla vittoria facile nel primo incontro. Invece il cammino del Taranto si è inaspettatamente complicato. E se è vero che le imprese più belle sono quelle complicate, i tifosi rossoblu avrebbero preferito un altro campionato, privo di sofferenze o quasi, in un girone che gli ionici dovrebbero dominare.
Nuovo corso: il Taranto vuole rilanciare le proprie ambizioni
Il rocambolesco 3-3 non poteva non avere conseguenze. Perché faceva seguito a un altro deludente pareggio, e allo scarso rendimento ottenuto in trasferta. Così il primo responsabile è stato individuato in Ciro Danucci che è stato esonerato lunedì scorso. L’incapacità di gestire il risultato, il potenziale non sfruttato appieno, una difesa che è un colabrodo, hanno spinto la società a prendere questo provvedimento. Via anche l’allenatore in seconda Marco Perrone, il preparatore atletico Luigi D’Oria e il preparatore dei portieri Danilo Bassi. Non si è trattato di una separazione consensuale. Tanto che abbiamo assistito al botta e risposta tra Danucci e il presidente Vito Ladisa: l’allenatore non ha mandato giù l’esonero, respingendo le accuse di scarso impegno rivolte ai suoi giocatori, e pure i risultati prodotti. La classifica in effetti gli dà ragione. Il Taranto è al terzo posto in classifica, e tre sono le strade percorribili per centrare la promozione: primo posto, playoff o Coppa Italia. Ma proprio per questo la rivoluzione interna appare tempestiva (cambio anche del ds, con il ritorno di Danilo Pagni). Perché non si può aspettare il fallimento per intervenire.
Il ritorno di Panarelli
Proprio la Coppa Italia dell’Eccellenza pugliese ha visto il nuovo incontro tra il Taranto e il Novoli: le due formazioni si sono sfidate nei primi novanta minuti del triangolare valevole per la semifinale. In quella che è stata la gara d’esordio del nuovo allenatore Luigi Panarelli. Figura nota, anche lui, nell’ambiente ionico – ha allenato il Taranto nel biennio 2018/2020. Ebbene, questa partita era stata presentata dallo stesso ex calciatore come gara più importante rispetto a una di campionato. Perché il goal vale doppio. La rete è arrivata, preziosa, a firma di Domenico Brunetti al 15’, dagli sviluppi di un calcio d’angolo battuto da Alessandro Di Paolantonio, ma non è bastata a evitare un altro pareggio: i padroni di casa hanno ristabilito la parità con una gran punizione di Gianmarco Mancarella, nella ripresa, all’interno di un match che è stato intenso sul piano tattico e agonistico. Resta il rammarico per una grande occasione sprecata in pieno recupero.
Il bicchiere è mezzo pieno, ad ogni modo: grazie a questo pareggio il Taranto potrà riposare tra due settimane, e tornare in campo l’otto gennaio per il nuovo impegno di Coppa. Quanto al gioco, invece, non si può che migliorare attraverso il lavoro: questo viene richiesto all’esperienza dell’allenatore tarantino messosi a disposizione della società e della sua città.
Taranto-Novoli, l’ultimo match di campionato nel racconto fotografico di Giuseppe Leva
Il Principato di Taranto tra storia e identità ne parliamo col prorettore Francesco Somaini
28 Nov 2025
di Silvano Trevisani
“Giovanni Antonio Orsini del Balzo aspetti del suo Principato”, è il tema del IV Convegno su Principato di Taranto, organizzato dall’Associazione di cultura classica e dalla sezione tarantina della società Dante Alighieri, in corso si svolgimento, in questi giorni, in varie sedi cittadine. Numerosi e interessanti interventi stanno riportando alla luce l’importanza che il Principato ebbe tra i secoli XIV e XV. Sull’argomento abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Somaini, prorettore dell’Università del Salento e ordinario di Storia medievale.
Forse nessuno avrebbe immaginato quando, quattro anni fa, fu organizzato il primo convegno, che sul Principato di Taranto ci fosse tanto da dire. E invece oggi, giunti al IV convegno, scopriamo che fu molto importante. Ma sono stati i convegni a sollecitare tali approfondimenti o semplicemente era stato sottovalutato dagli storici?
In passato è stato decisamente sottovalutato. C’era stata una stagione di studi importanti all’inizio del Novecento, grazie soprattutto a Gennaro Maria Monti, ad Antonucci e a Benedetto Croce. Poi è entrato in una fase doi oblio in cui è stato derubricato a vicenda di una realtà baronale un po’ indocile, un po’ insofferente, con studi incentrati soprattutto sul Regno e sulla monarchia. Questi Baroni, tra cui è importanti sono i principi di Taranto, perché oltre a Giovanni Antonio ci sono c’è suo padre e poi i primi principi angioini, sono stati un po’ trascurati. Poi, a partire dagli anni Novanta, è cominciata una nuova stagione di studi e si sono approfonditi i registri, i documenti, i carteggi diplomatici… Insomma, è venuta fuori la dimensione di una realtà feudale con una sua progettualità, le sue ambizioni, una sua politica culturale. Che ha l’idea di un costruire un territorio, organizzarlo, strutturarlo, incentivarne lo sviluppo. Il che poi ha portato al conflitto con la monarchia. A un certo punto, nel Quattrocento si avversano due progetti, uno che vuole fare del Regno di Napoli uno Stato moderno e un altro analogo, che punta a fare anch’esso uno Stato, pugliese, di cui Taranto e Lecce sono un po’ le due capitali. E il più ambizioso e per certi versi.
temerario di questi principi è proprio quello a cui è dedicato questo quarto convegno: Giovanni Antonio Orsini del Balzo, che poi è anche quello che finisce male e con cui si conclude il Principato.
Qual è l’aspetto caratterizzante della sua personalità?
Beh, come abbiamo sentito nelle relazioni, gli autori che parlano di lui che sono molti, compresi i Papi, gli umanisti… Quelli che lo avversano lo descrivono un personaggio subdolo, ambiguo traditore, simulatore e dissimulatore. Quelli che lo ammiravano, invece, lo esaltavano per la sua visione, forse appunto un po’ ambiziosa, di fare di questa terra il centro di una realtà autonoma. È divertente notare, ad esempio, come abbiamo fatto più volte osservare, che quando arrivano i turchi a Otranto nel 1480, loro che conoscono bene le cose del Mezzogiorno, dicono “noi siamo venuti qui perché vogliamo i territori che erano del principe di Taranto”, quindi con una precisa percezione di una realtà in qualche modo distinta rispetto al Regno. Che è nel Regno ma è anche alternativa ad esso.
Ma perché negli studi classici, scolastici ma anche universitari, questo capitolo del Principato è un po’ messo da parte?
Perché, come dicevamo prima, per molto tempo è stata trascurata questa storia. È rinata, però dopo una stagione però molto locale, quindi non era arrivata come dire a una dimensione appropriata. Adesso invece, da una ventina d’anni a questa parte, parecchia gente sta cominciando a percepire questa dimensione, quindi forse nei manuali prima o poi arriverà.
E se dovessimo indicare un lascito, o una persistenza del Principato per la realtà odierna?
Il lascito va un po’ ripensato appunto nella nella riscoperta di questa tradizione. Quando poi questo Principato viene “smantellato” perché vuole “volare troppo in alto” e comincia a dare troppo fastidio, anche l’archivio che comprende la documentazione che lo riguarda, viene portato a Napoli. Quindi la monarchia in qualche modo lo cancella. Una relazione del convegno l’anno scorso parlava dello “spettro” del Principato, come fosse un rischio ancora incombete sul Regno. Il lascito è recuperare la memoria di una stagione che non è breve, essendo durata nel complesso un secolo di cui quarant’anni con Giovanni Antonio, e che ha avuto un senso. E poi ci sono naturalmente dei monumenti, a Galatina, Soleto, qui a Taranto… Però c’è soprattutto una memoria da riscoprire, anche come scoperta di un’identità del territorio che si riappropria del suo passato.
Nel santuario della Madonna della Salute, in piazza Monteoliveto, in città vecchia, sabato 29 novembre avrà inizio la novena in onore della celeste patrona di Taranto (assieme a San Cataldo): Maria Santissima Immacolata a cura della omonima confraternita, di cui è priore Angelo De Vincentis. Il programma della serata del 29 prevede alle ore 18 la solenne intronizzazione del simulacro di Maria SS. Immacolata. Alle ore 18.30 la santa messa, cui seguirà l’apertura della mostra fotografica ‘La confraternita dell’Immacolata nel Santuario della Madonna della Salute in Taranto’.
Domenica 30 novembre, alle ore 18 preghiera del santo rosario e alle ore 18.30 la celebrazione eucaristica presieduta da mons. Emanuele Ferro, padre spirituale della confraternita, con il rito di professione dei nuovi confratelli e delle nuove consorelle con la consacrazione dei bambini alla Vergine Immacolata.
Dal primo al 5 dicembre: ore 18, preghiera del santo rosario e alle ore 18.30 la santa messa.
Martedì 2 dicembre, al termine della santa messa, benedizione della statua di Sant’Anna e momento di preghiera per l’ordinazione presbiterale di don Antonello Bruno, vicario parrocchiale della basilica cattedrale di San Cataldo.
Mercoledì 3 dicembre, al termine della santa messa, terza edizione del concerto di pastorali natalizie ‘O Concetta Immacolata’ eseguito dalla banda musicale ‘Città di Pulsano’ diretta dal m° Francesco Bolognino.
Venerdì 5 dicembre, al termine della santa messa, adorazione eucaristica.
Domenica 7 dicembre, alle ore 11, uscita della processione diretta alla basilica cattedrale dove alle ore 11.30 sarà celebrata la santa messa; alle ore 16.30, primi vespri presieduti dall’arcidiacono mons. Emanuele Tagliente e dal Capitolo Metropolitano; alle ore 17, solenne celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo mons. Ciro Miniero.
Lunedì 8 dicembre, solennità di Maria SS. Immacolata, alle ore 9.30 santa messa nella basilica cattedrale di San Cataldo; a seguire, accompagnata dalla banda ‘Santa Cecilia-Città di Taranto’ diretta dal m° Giuseppe Gregucci, processione con l’immagine di Maria SS. Immacolata con il seguente itinerario: piazza Duomo, via Duomo, piazza Fontana, via Garibaldi, via Sant’Egidio, via di Mezzo, pendio La Riccia, piazza Castello, via Duomo e rientro in Cattedrale; alle ore 18.30, santa messa.
Infine giovedì 11 dicembre: alle ore 18, traslazione del simulacro della Vergine Immacolata dalla basilica cattedrale al santuario dove alle ore 18.30 sarà celebrata la santa messa.
Alla Santa Rita di Taranto un incontro promosso dall’Associazione medici Cattolici Italiani (Amci) sulla persona nella malattia avanzata
27 Nov 2025
Il 25 novembre scorso, nella parrocchia Santa Rita, si è svolto un incontro coinvolgente promosso dall’Amci (Associazione medici cattolici italiani) di Taranto dal tema “Non si finisce mai di prendersi cura. Uno sguardo sulla persona con malattia avanzata”.
Due sacerdoti e due medici hanno offerto la loro testimonianza, intrecciando esperienza professionale e vissuto umano.
Il convegno ha offerto uno sguardo lucido e profondamente umano sul tema della malattia avanzata. Ne è emersa una visione comune: curare significa amare, essere presenza, restituire speranza. Amore è stata la parola chiave di tutto l’incontro.
Il primo relatore, mons. Gino Romanazzi, assistente diocesano Amci Taranto, ha riportato il problema della persona malata all’esigenza propria dell’uomo e della donna in quanto creature bisognose del rapporto col loro Creatore: tutti hanno fame e sete di sentirsi amati. Ad esempio, per un sacerdote portare la Comunione a una persona malata bloccata in casa significa consentirle di sentirsi amata.
Dopo di lui, don Cristian Catacchio, direttore ufficio diocesano Pastorale della salute, ha ricordato come il bisogno di amore non riguarda solo chi soffre, ma anche chi assiste, chi accompagna, chi vive accanto alla fragilità. Eppure, la famiglia, e il caregiver in particolare, sono spesso lasciati soli. La società moderna sta drammaticamente perdendo la capacità reale di prestare soccorso a malati e famigliari, di offrir loro cura e accompagnamento.
Al centro del dibattito è emersa infatti la consapevolezza che ogni malato, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, ha un bisogno profondo di vicinanza e di speranza. Il ruolo e la vocazione del medico hanno rappresentato il fulcro dell’intervento centrale del convegno, quello del prof. Filippo Boscia, past president nazionale Amci, il quale ha portato la sua esperienza maturata come medico nell’ambito della ginecologia e ostetricia a rischio. Il medico, per lui, è il primo veicolatore di umanità: attraverso uno sguardo, una presenza, una parola capace di accogliere e sostenere la persona anche quando non è più possibile guarirla dalla sua malattia. Mille strumenti tecnologici non sostituiscono una carezza o la presenza di una comunità familiare. La ripresa della speranza e del desiderio di vivere, per un malato, sono sempre possibili. E, affrontando il tema delle Dichiarazioni anticipate di trattamento, il professore ha sottolineato che il desiderio di “non soffrire” espresso quando si è in salute difficilmente equivale, nella fase finale, al desiderio di morire: anche in un malato terminale può rimanere il desiderio profondo di continuare a vivere, magari per un ultimo evento atteso, un affetto, un traguardo imminente di una persona amata.
Da grande conoscitore delle dinamiche sociali quale è, Boscia ha denunciato anche il fenomeno del “subappalto dell’affettività”, frutto di una società che delega tutto – dall’utero all’allattamento, fino alla cura dei figli piccoli – e che oggi fatica a sostenere la fragilità degli anziani. Grazie ai progressi della medicina, il “morire” è ormai un percorso spesso molto lungo, e la casa potrebbe essere il luogo naturale dell’accompagnamento; ma la crisi demografica, la carenza di risorse economica e la conseguente dimensione via via più ridotta delle abitazioni rendono davvero difficile se non impossibile garantire l’assistenza domiciliare. Siamo in un’epoca – constata con amarezza il professore documentando ogni affermazione con esempi di vita reale – tristemente e tragicamente caratterizzata da barbarie sociali.
La sua denuncia si è poi estesa alla trasformazione del linguaggio sanitario: il paziente è diventato “utente”, l’ospedale “stabilimento di cura”, il medico “operatore sanitario”. Ma noi non possiamo, non vogliamo, come vorrebbero invece molti politici, trattare anche la sanità e la sofferenza alla stregua di un’azienda, col bilancio dei profitti e delle perdite: in questa logica, la persona malata finisce per sentirsi un peso e di conseguenza agognare l’arrivo della fine. La medicina – ha ribadito – non può ridursi a contabilità: deve tutelare ogni vita, senza discriminazioni.
L’ultima relazione, quella del dr. Mariano Bruni, specialista in cure palliative, ha puntato sul bisogno di coinvolgere pienamente il malato terminale nella conoscenza del suo stato e nelle decisioni riguardanti il decorso della sua malattia. La mancanza di comunicazione col paziente – quella che il dottore chiama la congiura del silenzio -, che è la più facile e la più comune delle prassi quando una malattia è diventata inguaribile, genera solo isolamento e ulteriore sofferenza. Al medico spetta l’arduo compito di mettersi in discussione e interrogarsi sulla propria condizione umana: solo e soltanto così potrà sedersi accanto al malato e dirgli, da persona a persona, che la morte sta sopraggiungendo. Del resto, quello di cui una persona molto malata ha paura, afferma il dottore forte di una pluriennale esperienza nel campo delle cure palliative, non è la morte, bensì l’abbandono e la sofferenza. Per questo le cure palliative, diritto tutelato dalla legge, mettono al centro il bisogno della persona e non la malattia.
Qual è l’insegnamento nuovo che ci portiamo a casa da questo convegno? Che la società può diventare sempre più efficiente, ma se perde la capacità di accogliere la fragilità, perde la sua anima. E che noi, uomini e donne del nostro tempo, qualunque sia il nostro ruolo sociale e la nostra condizione di vita, stiamo rischiando di abdicare alla nostra essenza umana senza nemmeno accorgercene. Vogliamo invece riappropriarci della capacità donataci dal nostro Creatore di amare e guardare l’altro così come anche noi desideriamo nel profondo essere amati e guardati.
Rosario di Talsano: ‘Cuore a cuore’ con il cantautore Daniele Durante
27 Nov 2025
di Angelo Diofano
‘Cuore a cuore’ è il titolo del concerto di testimonianza che il cantautore leccese Daniele Durante terrà sabato 29 alla parrocchia della Madonna del Rosario, a Talsano, per l’inizio della novena all’Immacolata.
Quarantasette anni, nella vita impiegato in un’azienda nel settore dell’antincendio, sposato con Angela e papà della dolcissima Dalia, di sette anni, Durante è esponente della corrente cantautorale della ‘cristian music’, in fase di crescita nella nostra regione ma alquanto consistente nel Settentrione.
“Cuore a cuore – spiega – è l’atteggiamento del Signore che si piega davanti alle sofferenze dell’uomo, così come fece nel racconto evangelico quando Egli si accostò al sordomuto e, soffiandogli sulle orecchie e sulle labbra, intimò: ‘Effatà’, cioè ‘Apriti’. E da lì è partito il progetto con le canzoni che presento a Talsano in cui canto la dolcezza di Gesù che è sempre vicino, quando lo si invoca, alle tribolazioni umane, trattando anche i valori che Egli ci propone per un cammino di perfezione, cioè: perdono, santità, speranza, servizio e fede. Accompagnato da basi registrate o suonate alla chitarra, ogni brano è sempre accompagnato da una breve testimonianza ispirata alla vita vissuta. La canzone che dà il titolo al progetto – continua – fu da me composta, su richiesta delle suore salesiane di Lecce, per narrare le opere di San Filippo Smaldone, il santo dei sordomuti, nel centenario della sua nascita dal Cielo, poi presentato in diverse parrocchie e anche nella chiesa di Santa Maria Maggiore, a Roma, due anni fa”.
Daniele Durante, che non appartiene ad alcun movimento ecclesiale ma è semplice parrocchiano della San Nicola da Myra (a Lecce), è autore di altri due progetti musicali: ‘A un passo da Te’ (realizzato otto anni addietro) e soprattutto ‘I Santi della porta accanto’, comprendente una trentina di brani da lui definito ‘un cantiere in continua attività’ per le figure che continuamente gli vengono proposte, Fra queste ultime figura San Giuda Taddeo, il santo dei miracoli impossibili, molto caro al parroco del Rosario, don Armando Imperato, che si propone di invitare ancora a Talsano Daniele Durante.
Dipendenza digitale, incontro alla parrocchia Sacro Cuore
27 Nov 2025
di Angelo Diofano
‘Disconnessi e felici’ è stato il titolo dell’incontro svoltosi martedì 25 novembre nel teatro della parrocchia Sacro Cuore, quale momento formativo dedicato alla dipendenza dai social network e dall’uso eccessivo dei cellulari. Si tratta di un argomento sempre più urgente e sentito dalle famiglie, specialmente in un’epoca in cui la tecnologia permea ogni aspetto della vita quotidiana, in particolare quella dei più giovani.
Il prof. Ivano Alfeo, docente all’Istituto Righi e pedagogista, con competenza e linguaggio chiaro, ha guidato i presenti alla scoperta dei meccanismi che portano alla dipendenza digitale, illustrando come l’uso dei social possa generare forme di dipendenza paragonabili, per intensità e meccanismi neurologici, a quelle più note e tradizionali, sottolineando l’importanza dell’esempio degli adulti e della creazione di spazi e tempi ‘liberi’ dalla tecnologia.
Organizzata da Vincenzo Aversa, coordinatore del gruppo genitori dei ragazzi del gruppo scout della parrocchia, l’iniziativa ha visto come principali destinatari genitori ed educatori delle diverse realtà parrocchiali (catechisti, capi scout e educatori dell’Azione Cattolica) ai quali sono stati offerti strumenti concreti per comprendere e affrontare le dinamiche legate all’iperconnessione, che spesso incide sul benessere psicologico, relazionale e scolastico di bambini e adolescenti.
Particolarmente apprezzati sono stati gli spunti pratici condivisi: dalla necessità di stabilire regole familiari comuni, all’importanza di promuovere attività alternative che rafforzino le relazioni reali, fino alla valorizzazione dell’ascolto e del dialogo tra genitori e figli.
Ha fatto seguito un vivace momento di confronto, durante il quale i presenti hanno posto domande e condiviso esperienze personali, confermando la grande attualità del tema e il desiderio di costruire comunità educative sempre più attente ai bisogni dei giovani.
L’incontro ha lasciato molti spunti di riflessione e, come auspica il parroco don Francesco Venuto, potrebbe essere il primo di una serie di percorsi dedicati al mondo digitale e alle sue implicazioni educative.
“Domani (oggi, giovedì 27, ndr) mi recherò in Turchia e poi in Libano per compiere una visita alle care popolazioni di quei Paesi ricchi di storia e di spiritualità”: lo ha annunciato Leone XIV ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per il tradizionale appuntamento del mercoledì.
“Sarà anche l’occasione per ricordare i 1700 anni del primo Concilio ecumenico celebrato a Nicea e incontrare la comunità cattolica, i fratelli cristiani e di altre religioni”, ha spiegato al termine dell’udienza di oggi, durante i saluti ai fedeli di lingua italiana: “Vi chiedo di accompagnarmi con la preghiera”, l’auspicio per il suo primo viaggio apostolico.
“Molte vite, in ogni parte del mondo, appaiono faticose, dolorose, colme di problemi e di ostacoli da superare”, l’esordio della catechesi, dedicata al rapporto tra la Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale e imperniata attorno ad un verbo – ‘generare’ – come antidoto ad una “malattia diffusa”, quella della mancanza di fiducia nella vita, e alla violenza insita nell’animo umano, che può arrivare fino al fratricidio de alle guerre.
“La vita ha una sua specificità straordinaria”, ha osservato Leone XIV: “ci viene offerta, non possiamo darcela da soli, ma va alimentata costantemente: occorre una cura che la mantenga, la dinamizzi, la custodisca, la rilanci”. Per il Papa, “la domanda sulla vita è una delle questioni abissali del cuore umano”: “Siamo entrati nell’esistenza senza aver fatto niente per deciderlo. Da questa evidenza scaturiscono come un fiume in piena le domande di ogni tempo: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Quale è il senso ultimo di tutto questo viaggio?”. Vivere, in altre parole, “invoca un senso, una direzione, una speranza”, ed è la speranza “la spinta profonda che ci fa camminare nelle difficoltà, che non ci fa arrendere nella fatica del viaggio, che ci rende certi che il pellegrinaggio dell’esistenza ci conduce a casa. Senza la speranza la vita rischia di apparire come una parentesi tra due notti eterne, una breve pausa tra il prima e il dopo del nostro passaggio sulla terra”, il monito: “Sperare nella vita significa invece pregustare la meta, credere come sicuro ciò che ancora non vediamo e non tocchiamo, fidarci e affidarci all’amore di un Padre che ci ha creato perché ci ha voluto con amore e ci vuole felici”.
“C’e nel mondo una malattia diffusa: la mancanza di fiducia nella vita. Come se ci si fosse rassegnati a una fatalità negativa, di rinuncia”, l’affermazione centrale della catechesi. “La vita rischia di non rappresentare più una possibilità ricevuta in dono, ma un’incognita, quasi una minaccia da cui preservarsi per non rimanere delusi”, ha denunciato Leone XIV: “Per questo, il coraggio di vivere e di generare vita, di testimoniare che Dio e per eccellenza ‘l’amante della vita’, come afferma il Libro della Sapienza, oggi è un richiamo quanto mai urgente”. “Nel Vangelo Gesù conferma costantemente la sua premura nel guarire malati, risanare corpi e spiriti feriti, ridare la vita ai morti”, l’esempio scelto dal Papa: “Cosi facendo, il Figlio incarnato rivela il Padre: restituisce dignità ai peccatori, accorda la remissione dei peccati e include tutti, specialmente i disperati, gli esclusi, i lontani nella sua promessa di salvezza”. La consapevolezza da cui partire, per Leone, è che “le relazioni umane sono segnate anche dalla contraddizione, fino al fratricidio”, come insegna la storia di Caino, che “percepisce il fratello Abele come un concorrente, una minaccia, e nella sua frustrazione non si sente capace di amarlo e di stimarlo. Ed ecco la gelosia, l’invidia, il sangue”. La logica di Dio, invece, è tutt’altra: “Dio rimane fedele per sempre al suo disegno di amore e di vita; non si stanca di sostenere l’umanità anche quando, sulla scia di Caino, obbedisce all’istinto cieco della violenza nelle guerre, nelle discriminazioni, nei razzismi, nelle molteplici forme di schiavitù”.
L’antidoto, allora, è tutto racchiuso in un verbo: ‘generare’. “Generato dal Padre, Cristo e la vita e ha generato vita senza risparmio fino a donarci la sua, e invita anche noi a donare la nostra vita”, ha affermato il Papa: “Generare vuol dire porre in vita qualcun altro. L’universo dei viventi si e espanso attraverso questa legge, che nella sinfonia delle creature conosce un mirabile ‘crescendo’ culminante nel duetto dell’uomo e della donna: Dio li ha creati a propria immagine e ad essi ha affidato la missione di generare pure a sua immagine, cioè per amore e nell’amore. La Sacra Scrittura, fin dall’inizio, ci rivela che la vita, proprio nella sua forma più alta, quella umana, riceve il dono della libertà e diventa un dramma”.
“Generare significa fidarsi del Dio della vita e promuovere l’umano in tutte le sue espressioni”, ha proseguito Leone declinando il verbo a tutto tondo: “anzitutto nella meravigliosa avventura della maternità e della paternità, anche in contesti sociali nei quali le famiglie faticano a sostenere l’onere del quotidiano, rimanendo spesso frenate nei loro progetti e nei loro sogni”.
In questa stessa logica, “generare è impegnarsi per un’economia solidale, ricercare il bene comune equamente fruito da tutti, rispettare e curare il creato, offrire conforto con l’ascolto, la presenza, l’aiuto concreto e disinteressato”. “La Risurrezione di Gesù Cristo è la forza che ci sostiene in questa sfida, anche dove le tenebre del male oscurano il cuore e la mente”, ha garantito il Pontefice: “Quando la vita pare essersi spenta, bloccata, ecco che il Signore Risorto passa ancora, fino alla fine del tempo, e cammina con noi e per noi. Egli e la nostra speranza”.
Tra i ventisette luoghi di culto nei confronti dei quali il ministero della cultura ha assegnato il finanziamento di 8.960.476,50 euro per interventi di riqualificazione, adeguamento e messa in sicurezza sismica di torri e campanili, figura anche la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria in via Duomo (di fronte a vico Seminario) assieme, sempre per la nostra diocesi, a quella di San Simone a Crispiano.
I fondi sono rivenienti dal Pnrr che fanno riferimento all’investimento 2.4 ‘Sicurezza sismica nei luoghi di culto, restauro del patrimonio culturale del Fec e siti di ricovero per le opere d’arte (Recovery Art) e alla linea di azione n. 1 ‘Realizzazione dei luoghi di culto, torri e campanili’.
Degli 8 milioni e passa di finanziamento, 550.000 euro sono di spettanza della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria (da molti anni chiusa per inagibilità) e 100.000 euro per il campanile della chiesa di San Simone a Crispiano.
Per gli altri interventi nella provincia jonica sono stati inoltre stanziati 385.000 euro per l’adeguamento sismico del campanile della chiesa di San Domenico a Castellaneta e 80.000 euro per la chiesa di Santa Filomena a Laterza.
Ritiro, in preparazione dell’Avvento, dell’ufficio catechistico e dell’Azione cattolica diocesana
26 Nov 2025
di Daniele Panarelli
Si è svolto domenica 23 novembre, al seminario arcivescovile di Taranto, il ritiro di Avvento promosso dall’ufficio catechistico e dall’Azione cattolica diocesana. Un appuntamento pensato volutamente prima dell’inizio ufficiale del tempo liturgico, per offrire ai partecipanti l’occasione di entrare nella nuova stagione spirituale con uno sguardo rinnovato e un cuore preparato. Il pomeriggio si è aperto con la preghiera dei vespri, che ha introdotto l’assemblea in un clima di silenzio e ascolto. A seguire, la meditazione è stata affidata a mons. Giovanni Chiloiro, parroco del Cuore Immacolato di Maria, che ha guidato i presenti lungo il tema scelto per la giornata: “Tempo di avvento, tempo di speranza, visto dalla parte di Dio”. La riflessione ha toccato diversi punti chiave, offrendo immagini profonde e provocazioni interiori. «Avvento è il tempo di Dio che attende l’uomo», ha ricordato, sottolineando come sia Dio ad attendere noi prima ancora che noi lo cerchiamo. Un’attesa, quella divina, che è “tempo di amore paziente”, perché Dio aspetta «la comunione vera tra i popoli e tra noi». Ma non si tratta di un’attesa passiva: «L’attesa di Dio non è inoperosa ma piena di segni». Dio, ha proseguito mons. Chiloiro, vive l’avvento con una «speranza ostinata come l’amore», capace di intravedere possibilità dove noi vediamo solo limiti: «Mentre noi vediamo rovine, Dio vede germogli». L’avvento, allora, non è soltanto preparazione al Natale, ma la scoperta di un Dio già presente: «Non attendiamo un Dio che deve ancora arrivare, ma un Dio che già cammina accanto a noi». Nella meditazione non sono mancati riferimenti alle figure che illuminano questo tempo liturgico: Maria, posta “al centro dell’avvento”, perché «nel suo sì c’è tutto l’avvento di Dio»; Giuseppe, l’uomo del silenzio che “non comprende tutto ma ha fede”, custode discreto del mistero; e i pastori, immagine dei semplici, “coloro che guardano il cielo”, nei quali Dio trova la povertà che accoglie. Dopo la meditazione, il ritiro è proseguito con un tempo di adorazione eucaristica, durante il quale i presenti hanno potuto accostarsi al sacramento della riconciliazione grazie ai sacerdoti disponibili. Il ritiro si è concluso con un gesto simbolico, a suggellare il cammino condiviso. Pur non essendo un evento di massa, il ritiro ha visto la partecipazione di un buon numero di persone, provenienti da diverse parrocchie: segno del desiderio di ritrovare uno spazio di ascolto e interiorità. Uno spazio che si riempie delle parole con cui mons. Chiloiro ha concluso la sua meditazione: «Dio ci chiede di vivere l’avvento ogni giorno. Dio non smetterà mai di sperare». A noi il suo invito, che è anche una consegna: «Imparare a guardare la vita come Lui la guarda significa avere la stessa speranza di Dio».
Una serata densa di significato ha segnato, lo scorso venerdì, 21 novembre, nella cornice suggestiva della concattedrale Gran Madre di Dio, l’inaugurazione dell’anno accademico 2025/26 dell’Istituto superiore di scienze religiose metropolitano San Giovanni Paolo II.
Una cerimonia intensa e partecipata, che ha riunito studenti, docenti, istituzioni, presbiteri, insegnanti di religione e operatori pastorali delle tre diocesi della metropolia, insieme al vescovo di Castellaneta, mons. Sabino Iannuzzi e al preside della Facoltà teologica pugliese, prof. Vito Mignozzi, raggiungendo il suo apice con le riflessioni di fr. Sabino Chialà, priore della comunità monastica di Bose.
La cerimonia si è aperta con la preghiera iniziale e i saluti istituzionali del direttore, don Francesco Nigro, che ha introdotto la serata con parole profonde e cariche di gratitudine, nei riguardi della comunità e di tutti i presenti.
ph G. Leva
Le musiche dell’Orchestra ico della Magna Grecia hanno contribuito a impreziosire questo nuovo inizio: momenti semplici ma significativi, che hanno messo al centro il valore della bellezza, della cultura, della comunità accademica e il desiderio condiviso di affrontare il nuovo anno come un tempo di crescita e responsabilità.
Il cuore dell’inaugurazione è stata la prolusione di fr. Sabino Chialà, priore della comunità monastica di Bose, che ha guidato una profonda riflessione sul tema “Che cos’è l’uomo?”, ispirato al versetto del salmo 8,5. Con il suo stile rigoroso e insieme accessibile, egli ha accompagnato i presenti in un percorso di esplorazione dell’umano alla luce della Scrittura, mostrando come la domanda sull’uomo resti il nucleo pulsante di ogni ricerca spirituale e intellettuale. Nel suo intervento, il priore ha preso avvio dai racconti della Genesi per rileggere, con finezza e profondità, i drammi che segnano il mondo contemporaneo: ferite antiche e nuove che attraversano l’umano e che la Scrittura permette ancora oggi di interpretare con uno sguardo lucido e partecipe. Quei libri sacri, da cui è possibile ripartire, per comprendere l’uomo, e ripensarlo, aprendo lo sguardo sulla possibilità concreta di un cambio di rotta personale e comunitario, fondato su valori che vanno oltre ogni egoismo, rimettendo al centro l’umano, in nome dell’alterità e del bene comune.
Uno sguardo ampio e luminoso sulla dignità della persona, quello offerto dal relatore, capace di parlare al cuore dei presenti, guidandoli verso un nuovo punto di vista circa sfide contemporanee.
A chiudere la serata, i saluti dell’arcivescovo monsignor Ciro Miniero, che in continuità con quanto papa Leone XIV ha indicato nel recente Discorso alla Pontificia Università Lateranenseper l’inaugurazione dell’anno accademico – dopo aver ringraziato docenti, studenti e partecipanti – ha ribadito il ruolo delle istituzioni accademiche ecclesiali come luoghi di dialogo, ricerca e formazione integrale della persona umana.
L’istituto di scienze religiose di Taranto si colloca pienamente in questa traiettoria, impegnato nel costruire uno spazio di studio e confronto capace di leggere il presente con sguardo critico e fiducioso. A completare la serata, la consegna delle pergamene di laurea ai nuovi laureati, un momento particolarmente sentito che ha dato volto e concretezza al percorso formativo dell’istituto.
L’inaugurazione si è conclusa lasciando nei partecipanti un senso di gratitudine e di rinnovata energia. Ben oltre una semplice formalità, l’evento ha rappresentato un invito a vivere il nuovo anno accademico come un cammino comune: un percorso che nasce dall’ascolto, si alimenta di studio e dialogo, e si apre al servizio della Chiesa e del territorio.