Nuove picconate di Trump alla CPI
 
                Il messaggio è indirizzato a tutti: chi contrasta, chi impedisce, chi ostacola, viene perseguitato. Le aggressioni, o, per meglio dire, le rappresaglie di Trump proseguono sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti, compresa un’incessante opera di indebolimento degli organismi sopranazionali, in primo luogo, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’ultima notizia, in ordine di tempo, riguarda l’annuncio del segretario di Stato, Rubio, circa le sanzioni che gli Stati Uniti hanno deliberato contro quattro funzionari della Corte penale internazionale dell’Aia che, a suo dire, “hanno partecipato alle azioni della Corte penale per indagare, arrestare, detenere o perseguire cittadini degli Stati Uniti o di Israele, senza il consenso di entrambe le nazioni”. È un argomento ricorrente e che sta alla base della narrazione trumpiana, dal momento in cui la procura della Corte penale internazionale ha cominciato le indagini sulla situazione nella Striscia di Gaza. Le nuove sanzioni hanno messo nel mirino due giudici della sezione giudicante e due magistrati della Procura della Corte. È una nuova bastonata, non soltanto al funzionamento della Corte e, per di più, al sistema della giustizia penale internazionale perché rischia di determinare un effetto di riluttanza e di refrattarietà a esercitare l’azione legale per timore di sanzioni, impedendo, in tal modo, di fare piena luce sui crimini. Le fonti legislative – le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 – e il quadro normativo che rappresentano il diritto internazionale umanitario, hanno la loro essenza nella punizione degli autori dei crimini che sono responsabili individualmente degli attacchi alla popolazione civile, della privazione dei beni di prima necessità (di viveri, medicinali, carburante e altre fonti di sussistenza) operata contro la popolazione civile, dei lanci di bombe su strutture della sanità. È indubitabile che le sanzioni statunitensi nei confronti di giudici e di magistrati della Corte creino difficoltà alla attuazione della giustizia e costituiscano, contribuendo anche ad assicurare l’impunità, una violazione di queste regole. Emerge, per di più, il fatto che le sanzioni statunitensi non abbiano alcun fondamento giuridico. L’amministrazione Usa, spadroneggiata da Trump, non ha fatto alcuno sforzo per trovare appigli giuridici per giustificare queste misure, salvo l’infondato ed errato richiamo al fatto che la Corte penale internazionale non può esercitare “legittimamente” la giurisdizione su cittadini di stati non sottoscrittori dello Statuto di Roma, sorvolando sul fatto che nel Trattato è incluso il criterio di giurisdizione sulla base della territorialità. È un criterio che gli allievi del biennio dei licei di scienze umane e degli istituti tecnici apprendono subito: il giudice competente a giudicare una causa è in base al luogo fisico in cui si sono verificati i fatti, senza tenere conto della cittadinanza delle parti coinvolte: di conseguenza, la Corte ha giurisdizione su cittadini di stati non sottoscrittori dello Statuto di Roma. A preoccupare non sono, però, solo le sanzioni e la posizione statunitense che è ben inquadrabile in una generale attività demolitoria del diritto internazionale – così come provato anche dalle sanzioni verso la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati da Israele fin dalla guerra dei sei giorni – , ma anche le inconsistenti risposte degli stati e il silenzio rintronato dell’Ue, “comparse” nella comunità internazionale che non si preoccupano del rischio di contribuire a osteggiare il corso della giustizia con l’intento di non disturbare chi vuole fare, ossia Trump. A questa ulteriore ondata di sanzioni Usa contro i giudici della Corte, che fanno seguito a quelle già emanate nei confronti del procuratore capo Karim Khan e di altri quattro magistrati, le risposte sono state inadeguate e il supporto alla Corte pressoché stinto. Ha protestato l’alto commissariato Onu per i diritti umani, si sono fatti sentire anche alcuni paesi, fra cui la Francia, la Svezia, la Norvegia, la Spagna, la Slovenia, i Paesi bassi, la Danimarca e il Senegal. Ma non l’Italia. Molto poco rispetto alla prima ondata di sanzioni a seguito della quale era stato adottato, da ottanta stati (ma non l’Italia), un documento di protesta verso gli Stati Uniti e di supporto alla Corte penale internazionale. Questa volta debole è stata la risposta, con una rassegnazione inaccettabile perché in gioco c’è la verità, la giustizia e la lotta all’impunità. Più fragoroso di tutti il silenzio dell’Unione europea e a tale proposito va anche ricordato che è stato un Paese Ue, l’Ungheria, ad accogliere, con tutti gli onori, il primo ministro israeliano Netanyahu, destinatario di un mandato di arresto della Corte penale internazionale, senza proteste da parte delle istituzioni Ue. Queste debolezze, e questi silenzi, rischiano di minare i valori stessi dell’Unione europea che sono stati già invalidati dalla mancata sospensione dell’accordo di associazione fra Ue e Israele del 2000 che considera il rispetto dei diritti umani come elemento essenziale dell’accordo. E tutto ciò con grande gioia dei ricercati Netanyahu e Gallant, di Putin e Maria Lvov-Belova e di Trump, spalleggiatore della loro latitanza. Ma, prima di tutto, con buona pace delle vittime dei loro crimini.
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