Chi ascolta il pianto dei bambini?
Il tempo ha smesso di scorrere. Pochi hanno un orologio, ancora meno quelli che hanno un calendario: non c’è neanche un muro in piedi per conficcare un chiodo, per appenderlo. Il tempo viene scandito dalla luce del sole, c’è solo il giorno e la notte, e nessuno sa da quanto tempo è così. Nessun bambino va a scuola, perché le scuole non ci sono più. Solo giorni identici, tutti uguali, sospesi nel vuoto, nel niente, nel nulla. A Gaza la gioia del Natale non c’è, perché è stata sostituita da una realtà che sfugge a ogni umana narrazione. Nelle strade di quella che una volta era una città, non ci sono decorazioni natalizie in questi giorni: soltanto resti di case distrutte, macerie e sogni spezzati. Non si scambiano regali sotto gli alberi, ma si distribuiscono scarse razioni di cibo in lunghe file, unite al timore che le scorte finiscano prima di arrivare a tutti. Ma non è tutto: i gazawi sono imprigionati fra il freddo dell’inverno e le misere tende che non offrono protezione. I bambini giacciono sul terreno congelato, i loro volti pallidi raccontano storie di fame e di freddo. Le strade di ciò che, in passato, era un centro abitato, adesso ricoperte di fango dopo le piogge, costringono i bambini scalzi a percorrere sentieri mentre i loro piccoli piedi tremano. Le famiglie vivono in tende stracciate, circondate da pozze di acqua dopo le tempeste, mentre i bambini tentano di accendere fuochi usando spazzatura, solo per scaldarsi le mani. “Voglio smettere di soffrire”. “Voglio andare in paradiso per essere finalmente felice”. “Voglio raggiungere la mia mamma morta”. Sono parole che mai nessun bambino al mondo dovrebbe dire. Invece a Gaza, adesso, i bambini hanno la voce strozzata da queste parole. Non parlano mai di scuola, di giochi, di amichetti, non desiderano un avvenire: chiedono la morte, la morte come unica via di fuga. Perché là c’è il paradiso. Perché solo là, credono, troveranno cibo, pace e i loro cari morti sotto le bombe o fra i morsi della fame. È un paradosso raggelante: i bambini, che dovrebbero sognare il futuro, sperano invece di morire, accarezzano il suicidio. La morte come salvezza, la tomba come protezione. È accettabile che un bambino, invece di chiedere una palla o un quaderno, chieda la morte? Per giorni e giorni, questo interrogativo ha tempestato e tormentato la mia anima, la mia coscienza, il mio cuore, la mia mente. Ecco perché è arrivata la conclusione di non adagiare il Bambino nel presepe, ma di collocare un piccolo Crocifisso. “Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri?”. Fu questa la domanda che rivolse Salvatore Quasimodo nella poesia “Natale”. Scusa, Maria, per l’idea di questa modifica, non ti arrabbiare, non è un affronto, non vuole essere una offesa. Quella rappresentata nel presepe è una pace che esiste solo perché scolpita nel legno, nella cartapesta, è una pace che non deve misurarsi con la storia. La pace del Natale, quando resta murata nella rappresentazione, è una pace finta, non infastidisce nessuno, non chiede nulla, non pretende conseguenze. Ma si contrappone alla realtà dell’essere umano che, dopo venti secoli, continua a tradire ciò che celebra. È nella sofferenza dell’uomo che si compie daccapo la sofferenza del Cristo, offerta per la nostra redenzione. Il mistero della nascita contiene in sé pure il mistero della Passione e della Resurrezione. Se celebrare il Natale vuole dire accogliere il Figlio di Dio che si fa Bambino e se il Figlio di Dio si presenta tuttora in ogni bambino, dimmi tu, Maria, quale sarà la forma più evangelica di accogliere il Bambino di Betlemme? Ascoltare il pianto dei bambini, di ogni bambino, è la via necessaria per riuscire ad ascoltare il pianto del Bambino di Betlemme. Ascoltare il pianto dei bambini di Gaza e dei bambini ucraini deportati in Russia, ascoltare il pianto di ogni bambino, è ciò che porta a condividere la sofferenza dell’altro, la sofferenza innocente, che apre il cuore alla compassione e perciò anche alla pace e alla riconciliazione. Forse Maria, occorre fare un passo in più, un passo un po’ più lungo: è utile ascoltare il pianto di tutti, il lutto degli uni e degli altri, il pianto di tutte le vittime di tutti i conflitti che insanguinano adesso questo mondo, con una vicinanza ed empatia da fare nostro il pianto dell’uno e dell’altro, così, attraverso noi, riavvicinare l’uno all’altro. Ma anche ascoltare il pianto dei bambini lasciati soli ad attraversare il Mediterraneo – Giorgio La Pira lo definiva “il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni” – in cerca di un avvenire negato o abbandonati nei deserti di umanità delle città e delle periferie dell’Occidente. Se si cerca la pace, se si vuole la pace, quella giusta, quella del cuore, è utile imparare ad accogliere il Dio infinitamente piccolo, distante anni luce dalla nostra umanità, che, nel Bambino di Betlemme, si fa vicino a noi, manifesta il suo amore per noi e, prima di tutto, la volontà di salvarci, accettando anche noi come figli in quel Figlio “che morirà poi in croce fra due ladri”, per rivelarci che nemmeno uno merita la morte, che nessun dolore può essere minimizzato, che la pace sarà possibile se si accoglie anche il cattivo. È davanti a tutta l’umanità che il Bambino di Betlemme piange e chiede di ascoltare il suo pianto per poter guidare noi alla pace, per poterci donare la pace che include anche giustizia, misericordia e carità, donandoci sé stesso, tutto sé stesso. Nel mistero della Passione e della Resurrezione è contenuta la più alta consolazione per tutta l’umanità: il Bambino di Betlemme, che crediamo di accogliere a Natale, ma che ogni giorno inchiodiamo nuovamente sulla croce nelle sofferenze dei fratelli, ha distrutto la morte e ha garantito a Disma, il buon ladrone, che l’ha riconosciuto sia pure in punto di morte: “Oggi tu sarai con me in Paradiso”.
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