Il potere logora tutti, davvero tutti
Forse fu la conseguenza collaterale di Mani pulite, la prima e più vasta delle inchieste che descrissero il fenomeno Tangentopoli, il sistema fraudolento che coinvolgeva in modo colluso la politica e l’imprenditoria. Sta nei fatti che svanì la concezione della politica come servizio, missione, ministero, diaconia, come alto compito, come la forma più alta di carità. Il primo messaggio linguistico di tale cambiamento fu l’ingresso in politica di Berlusconi, spiegato come “una discesa in campo”. Tralasciando ogni apprezzamento sulla parola discesa (sarebbe stato certamente più appropriato il termine salita!), resta una considerazione sul “campo”: l’idea che allora trapelò fu quella della politica giudicata come un match di rugby. Restano, ad anni di distanza, espressioni più che evidenti, come “conquistare il potere” al posto della più adeguata e giusta “essere designati al governo del Paese”. Non è solo un fatto, anzi una bizzarria, di carattere essenzialmente linguistico: dietro tutto questo c’è una vera e propria visione della politica. Perché, si sa, il potere non è soltanto del governo, nel governo e sul governo, ma anche sul Parlamento, sul proprio partito e sulla compagine della maggioranza, senza trascurare tutto il resto. O meglio tanto altro: i rapporti con Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale e con i magistrati (che hanno l’imperdonabile difetto di non essere eletti!), le autorità garanti e di controllo, le Regioni, i comuni delle grandi città, l’imprenditoria, i mezzi di informazione (sempre più schivati da vari leader politici e sempre più soffocati dalla garrota delle querele temerarie), soppiantati ormai dal potere persuasivo dei social. Il loro cambiamento è del tutto evidente. Di fatto, sono transitati dalla competenza della informazione alla vera e propria comunicazione, che sono cose molto diverse: la stampa spiega e racconta, commenta e critica, nella seconda, invece, l’autore, o il leader, nella gran parte dei casi, proclama ciò che vuole senza un contraddittorio, senza un diritto di replica, perché parla e sbraita dal suo ambone telematico, dal suo pulpito virtuale. Quindi, non resta altro che prepararsi all’avvento dello Stato “influencership”. L’Italia è forse uno fra i pochissimi paesi in cui, dal dopoguerra, la premiership e la leadership, non hanno soggiornato nella stessa persona. Rare le eccezioni e diverse fra loro. La prima fu quella di De Gasperi: ufficialmente lo statista trentino non ha mai rivestito il doppio incarico cioè presidenza del Consiglio e segreteria della Democrazia Cristiana. Ma chiunque sapeva che De Gasperi era il vero leader democristiano. Tant’è che Guido Gonella sosteneva di essere il segretario del partito, ma innanzitutto il segretario di De Gasperi. Invece, Craxi fu presidente del Consiglio dall’agosto 1983 fino all’aprile 1987 (salvo una breve interruzione nell’estate 1986 a causa delle fibrillazioni con De Mita per il “patto della staffetta”) e fu, nel frattempo, segretario del Partito Socialista e senza alcuna opposizione interna, perché il suo era già il canovaccio del partito del capo. Fu Berlusconi che edificò il primo grande e importante partito personale, che gli sopravvisse con scarse percentuali, ma non lontane da quanto otteneva, negli ultimi anni, con lui in vita. Riuscì a detenere contemporaneamente e più volte lo scettro del governo e il timone del partito. Ma non riuscì mai a porre rimedio al suo limite: quello di essere un leader elettorale, ma non già un leader governante. In qualunque modo, fece scuola, sia per l’uso della parola potere, sia perché il partito personale e la tendenza a far coincidere premiership e leadership, monopolizzando potere, si diffusero a quasi tutti gli altri partiti. In Italia, negli ultimi tempi, si può tranquillamente dichiarare che numerosi elementi politici obbediscono completamente ai propri capi, non soltanto perché questi hanno il potere, ma perché senza di loro – pure per effetto della grande volatilità elettorale, cioè la tendenza degli elettori a modificare radicalmente il proprio voto fra una elezione e l’altra, passando da un partito all’altro o da un blocco ideologico all’altro – il partito finirebbe in frammenti alla prima sfida elettorale. Ma è un errore macroscopico pensare che il potere abbia un richiamo solamente nazionale: alcuni presidenti di giunte regionali (ormai è diffusa la prassi di chiamarli governatori e torna attraverso l’uso delle parole la visione della politica) hanno fatto il diavolo a sedici per ottenere un terzo mandato che in alcuni casi sarebbe stato il quarto, con quel che ne discende sugli equilibri nelle partecipate e nel sistema politico locale. Il potere può essere impiegato e può essere utilizzato in mille svariati modi: come alta funzione, come servizio, missione, ministero, diaconia, oppure per tirare un po’ di più la corda, come, per esempio, imponendo al Parlamento leggi di bilancio approvate all’ultimo secondo con maxiemendamenti non discussi, come succede da tanti, troppi anni, con tutti i poli e con tutti i presidenti del Consiglio dei ministri (ormai è diffusa la usanza di chiamarli premier!). Abbiamo avuto anche i leader che hanno chiesto “pieni poteri”, come Salvini: ma l’istanza non fu per nulla accolta e, inoltre, il tutto coincise con il principio del tracollo del leader leghista. Ma poi ci sono i grandi insegnamenti. Robert Musil, scrittore e drammaturgo austriaco, nel romanzo “L’uomo senza qualità”, scrisse: “Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati di una epoca precedente è convinta di migliorarli”. Così è stato, così è e così sempre sarà.
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